Le non cose sono nude

Byung-Chul Han

«Ho scritto due libri guardando i suoi vestiti svolazzare su quella corda», scrive Joan Didion in Blue Nights. I vestiti, anche quelli della figlia, Quintana Roo, sono scelte sentimentali. Si intrecciano ai gelsomini, ai ricordi e al dolore. Ricordi delle persone che non ci sono più, di quello che siamo stati, quando del ricordo resta appena ciò che crediamo di ricordare, il riflesso argenteo di una foto e quella domanda, probabilmente sempre la stessa, a cui non siamo ancora riusciti a dare una risposta.

Nel 2015 Joan Didion è testimonial per Celine, con quella magrezza che si era portata sempre addosso da una lontana febbre paratifoide, più o meno da quando tutto era cominciato nella redazione di Vogue America, la stessa magrezza che, dopo i lutti, preoccupava amici e familiari, quella che agli occhi del marito la faceva sembrare una bambina, ed ora, in quello scatto per Phoebe Philo, decisamente qualcosa o molto di più di una donna fragile o troppo vecchia. Lei che ha intrecciato i tubini di Lilly Pulitzer, un tailleur Chanel o i braccialetti David Webb con l’ironia e le cose che rompono il cuore. Lei che ha affidato la capacità di “superare la situazione”, nonostante la vecchiaia e la paura, anche ad un paio di fuseaux neri di cachemire e a un filo di perline, che forse non fanno più al caso suo, ma non importa. Perché c’è sempre ancora qualcosa da perdere anche quando hai già perso tutto. Un altro solstizio d’estate.

Le forme della moda è il titolo della nuova edizione di questo saggio fondamentale di Maria Luisa Frisa, studiosa e teorica della moda, professoressa alla IUAV di Venezia, curatrice di mostre e direttrice della rivista bilingue Dune. Forme sono i diversi capitoli di quella che in Italia stenta ancora ad essere trattata come una disciplina, ma anche capitoli del fenomeno moda, della sua storia e del suo business. Frisa ripercorre e condensa in modo ammirevole tutte le tappe. Il passato e le sfide contemporanee, in un lungo percorso dalla frivolezza all’impegno, dallo spreco all’ecosostenibilità, dallo stereotipo alla inclusività, al body positivity, al gender fluid, al genderless e alla dissidenza di genere (quello che Oliviero Toscani, per citarne uno, aveva già fotografato tempo fa). Dalla moda sartoriale a quella dei direttori artistici delle grandi maison rimaste orfane di padre o di madre, spregiudicati rimestatori di stili e miti, nuovi profeti di rivoluzioni culturali a venire. Dalla settimana della moda di New York a quella di Londra, passando per il made in Italy; dalle passerelle, alle accademie, alle mostre, alla fotografia di moda. Da Diane Vreeland, eccentrica, esagerata, unica, storica direttrice di Vogue America, fino alle redattrici di moda che sono venute dopo di lei, ereditando il mestiere che in qualche modo lei aveva inventato. Dal tempo in cui tutto era inedito fino ad oggi in cui tutto sembra invece solo un’antologia, una retrospettiva, un archivio: feticismo e omaggio a ciò che abbiamo già visto e vissuto. Dal lusso del secolo scorso al lusso del futuro, che dopo aver fatto tutto il giro, torna ad essere artigianato, forse ricercato o forse solo, sempre più kitsch.

Non lo sapremo mai, la risposta non è mai scontata perché lo stile è un altro discorso, a volte ha qualcosa di eccessivo altre misurato, massimalista o minimalista, scioccante o ammaliante o ammaliante proprio perché scioccante: assolutamente individuale. Lo stile va oltre l’abito o l’accessorio, fa tutt’uno con la personalità, è flair, goût, è inspiegabile: “un giardino nel bel mezzo dell’inferno”, diceva Vreeland (a proposito del suo appartamento newyorchese). Vreeland che pure era sicura che nella moda ci dovesse essere qualcosa di surreale e un pizzico di trivialità. Con lei funzionava, ma il risultato non è sempre garantito.

Soprattutto Frisa cattura, sin dal titolo così appropriato, l’anima della moda, che è un mostro, eppure, un caleidoscopio meraviglioso (fenomeno sociale, grande catalizzatore, luogo di mille contraddizioni, linguaggio, etica, codice, manifesto, simulacro, sogno, realtà, desiderio, e, rimettendo i piedi a terra, mercato). Quindi forme: ovvero frammenti di un fenomeno, figure non esaustive e non dogmatiche, anche incongrue. Tutto o niente, o tutto proprio perché niente, senza vergogna e senza paure. Perché appunto la moda, quando ne guardiamo l’essenza, lasciando da parte le ragioni di mercato, è un segno (ce lo insegnava Barthes in Le systéme de la mode) dal significato equivoco, aleatorio, pronto a riscriversi continuamente. Eppure, quando bagnamo di nuovo i piedi nel fiume nero del sistema di mercato, quelle parole che sembravano solo suggerire delle immagini diventano slogan, messaggi di facile lettura. Il rapporto tra segno e significato si fa di una comprensibilità quasi idiota: l’originale è solo una copia e tutto quel vapore di mistero è risucchiato via. Siamo nel regno della ovvietà. La moda è sempre più assertiva, troppo pertinente e drammatica: un “overstatement”, un’altra pagina arrogante, scritta bene o scritta male. Invece la sua forza, la sua originalità resta proprio quella di mettere fuori moda e demistificare il linguaggio, e così di sfuggire al controllo. Lì nel posto dell’evocazione, dove i manichini, quei poetici manichini Stockman, che all’inizio erano sculture di cartapesta, si vestono anche quando sono disadorni, come le pagine dei romanzi che non hanno bisogno solo delle belle parole per scriversi.

La moda, che per definizione deve essere sempre moderna, ovvero attuale e futura, prende forma tra due estremi. Un conformismo (che non è disposta ad ammettere) ad una direzione che è stata decisa altrove (una decisione sui nostri corpi, sui nostri ruoli, di uomo e di donna, su cosa possiamo scoprire e cosa dobbiamo nascondere, su cosa dobbiamo desiderare), che non le permette di essere completamente visionaria, eccetto forse in quei casi in cui è capace di prescindere dal corpo sessuato e dall’idea di corpo (penso ad alcuni giapponesi come Issay Miyake o a Rei Kawakubo). Ed un anticonformismo (che è, invece, il suo emblema), che avrà però al suo margine sempre un altro margine, che sarà sempre difficile o impossibile da cogliere. Oggi la direzione impressa alla società è molto più subdola, ci offre l’illusione di essere sempre più liberi ed autodeterminati e invece sotto tutte le sfumature e le complessità della nostra epoca digitale, il sistema di mercato ci tiene in pugno: siamo come mai lo siamo stati “influenzabili”, e alla mercé di una moda che è alla mercé di qualcos’altro.

Barthes rifletteva sulla marginalità del margine, che in qualche modo è l’oggetto che fa davvero scandalo, socialmente osceno e perturbante. Quello che continuerà ad essere “camp” (per usare l’espressione di Susan Sontag): ovvero una sensibilità diversa, che Sontag, non a caso, non identificava chiaramente con il gusto omosessuale, queer, kitsch o trash – come invece è stato proposto al Met (Camp: notes on fashion), dove il camp è stato ridotto ad una raccolta ironica di artifici, eccessi e parodie. Invece è come se la moda si sia cristallizzata su un margine che rischia di essere oramai la caricatura di sé stesso, senza chiedersi cosa stia davvero oltre. E a volte quello che sta oltre, sta soltanto prima. L’altro prima di starmi di fronte, sta dentro di me. Rileggendo Barthes ritrovo così quell’accenno all’oscenità della delicatezza, della sensibilità. Oggi direi, l’oscenità dell’umano.

La moda “progetta” (direbbe Frisa) il corpo dell’uomo, della donna, di quel sé (lo preferisco ad identità e a genere) che siamo ognuno di noi, che in fondo, detestiamo essere troppo “identici” a noi stessi, e ci definiamo e ridefiniamo, sveliamo e nascondiamo anche attraverso l’abito che indossiamo. Ma soprattutto “da forma” ai nostri desideri e al nostro erotismo. La moda sembra così condannata a restare sulla patina di tutto ciò che “appare”: una questione di ornamento, un fenomeno superficiale. Pura forma in un’antitesi trita e ritrita che attribuisce ovviamente meno valore a tutto ciò che sta fuori, che si mostra (Sontag, On Style). Ma l’antitesi tra forma e contenuto è roba vecchia. O meglio, come scriveva Sontag, in una delle sue rivoluzioni copernicane: the matter, the subject, is on the outside; the style is on the Inside. La moda dovrebbe allora acquisire una nova consapevolezza: che il corpo non è affatto l’involucro dell’anima, una maschera, ma uno dei suoi aspetti, perché appunto, come diceva sempre Sontag, “the mask is the face” e in qualche modo l’anima si indossa sul vestito. La consapevolezza di poter stare davvero dentro, e di poter modificare il contenuto. Di interpretare la realtà senza aggiungere (sempre di più, sempre più velocemente) ma smascherando, sottraendo, facendo ecologia di sé stessa.

Ripercorrendo le tappe essenziali della storia della moda, Frisa coglie questa e le altre potenzialità della moda, in un fermo immagine senza sbavature, in cui siamo già andati oltre, la moda è già andata oltre, senza rendersene appieno conto. Le sfilate non sono più un semplice defilé ma aspirano ad essere una mostra d’arte. La moda è entrata di diritto nel macro-universo della “creatività”, facendosi terreno di appropriazioni, riappropriazioni e contaminazioni: una specie di crocevia tra arti visuali e plastiche, architettura, design e letteratura. In un dialogo con la cultura che per carità non si riduce alle mille vanità e vezzi di scrittori di oggi e di ieri, da un supposto stile “transgender” avant la lettre di George Sand, passando per i turbanti di Simone de Beauvoir, o i cardigan oversize abbinati ad improbabili scarponcini di Virginia Woolf, fino ad una stilosissima Zadie Smith.

Frisa blocca il balzo dalla proliferazione e iperproliferazione di mode e abiti (e corpi e oggetti) verso una specie di indifferenza, quella che purtroppo ci aspetta sull’altra riva. E si interroga sulla risorse della moda: trasgredire (come ogni forma artistica), eccedere, modificare la nostra soglia di tollerabilità, agire sulle nostre inibizioni, con il rischio però, nascosto dietro l’angolo, di banalizzare ogni rottura. Frisa si ferma fiduciosa su quel segno di addizione-sottrazione che la moda porta nel sangue.

Lucio Dalla, in quella sua meravigliosa canzone che è “Gesù bambino”, canta in una strofa di sua madre-ragazza con l’unico vestito “ogni giorno più corto”. In un baule di mia nonna, ricoperto da un lenzuolo bianco, c’erano i vestiti “ogni giorno più corti”. Mia madre e mia nonna lo aprono con parsimonia, solo in certe occasioni: quando c’è motivo di far festa, quando c’è un po’ di malinconia nell’aria, quando stanno da giorni dietro ad un pezzo di stoffa, a una passamaneria, un ricamo, un pizzo, te lo ricordi? chissà dove è andato a finire. Deve essere lì dentro, nel baule. Lì dentro c’è sempre lo stesso vestito cucito e ricucito non so quante volte, ci sono le vestagliette di mia nonna, uguali a quelle che indossavano la Loren e la Magnani in alcuni film di de Sica, e le scamiciate che mia madre si era fatta tagliare dalla sarta quando era incinta, ci sono i vestiti della Signora Amodeo, sarta precisa e fantasiosa, le vecchie riviste da “Burda” a “Mani di fata” per copiare i modelli alla moda, le giacche di pelle anni Sessanta di mia madre e di mio padre, che sanno ancora dei capelli lunghi di lei e delle sigarette di lui. Lì dentro c’è un’idea di moda, come di un vestito che non si può sostituire, che si tramanda, in cui anche io avrei infilato la mia giovinezza; in cui i vestiti hanno un nome di un lessico tutto famigliare; e fanno tutt’uno con l’occasione in cui sono stati indossati, matrimonio, battesimo o funerale. Lì dentro ci sono vestiti-storie, e destini in cui io avrei portato il loro vestito e il loro rossetto, in cui io sarei stata in qualche modo loro…  È un baule di cimeli di stoffa, è il baule del collezionista, di noi che abbiamo posseduto davvero quelle nostre misere cose scintillanti. Quel baule non c’è più, era passato di moda già da un pezzo, e mia madre, che non raggiungeva gli eccessi da collezionista di mia nonna, che invece conservava tutto, proprio tutto, se ne è disfatta appena ha potuto. Ma io continuo ad aprirlo. Joan Didion continua a vedere i gelsomini intrecciati ai capelli, e il fiore di frangipane tatuato sotto il tulle.

Poi c’è un tragitto che facevo ogni mattina da via Genova, -dalla camera in affitto nell’appartamento della signora Gilda, corpulenza di una Annita Ekberg invecchiata, e la vita poco esuberante di una donna qualsiasi-, fino a via del Corso, dove frequentavo uno dei primi master che avevano a che fare con la moda. Niente di più lontano dalla laurea in giurisprudenza appena presa e niente di più vicino al mio desiderio di ribellione. Quella passeggiata di quel breve soggiorno romano era piena di illusioni e false piste. Ma soprattutto di un senso di inadeguatezza fino alle lacrime. Una specie di motore che mi ha sempre lanciato in avanti, per allontanarmi da tutto il resto, pizzi, ricami e destino inclusi. Perché la moda cambiava ed io volevo seguirla, volevo quelle minigonne che facevano orrore a mia madre che mi voleva composta nell’ennesimo twin-set preppy.

Questo è il mio misero “ordine terreno”, certamente secondario, trascurabile, sostituibile, per gli altri, e insostituibile, per me. Tra cielo e terra, tra i totem del baule, vestiti che, come le cicatrici, si fanno sentire ad ogni passaggio di stagione, sorta di “pensieri magici” e quell’inadeguatezza, che mi buttava nel futuro.

La sfida della moda forse dovrebbe essere di contraddirsi, di andare contro sé stessa, smettere di essere moderna, involvere invece di evolvere. Difendere il ricordo, rimetterci in contatto con quello che ci è sempre stato familiare. “Soffermarsi”, per usare ancora una parola di Didion. Per perdere e ripescare continuamente quella vulnerabilità e quell’energia disinibita a cui possiamo dare multiple forme. Una composizione di oggetti che per noi sono significativi, come direbbe Frisa. Farsi veicolo di ricordi, quelli che su “L’isola dei senza memoria”, romanzo di Yoko Ogawa, la madre nasconde nei cassetti del comò per non farli trovare dalla “polizia del ricordo”. I ricordi che nel saggio di Byung-Chul Han sono le cose che scompaiono senza che noi ce ne accorgiamo, noi che abbiamo smesso di vivere il reale.

Noi che però siamo ancora capaci di chiederci assieme a Didion: “Era un modo di apparire, un modo di essere. Era un periodo. Che ne è stato di quel modo di apparire, di quel modo di essere, di quel tempo, di quel periodo?”

Silvia Acierno