Quella che vado a scrivere è una recensione diversa dalle solite e i motivi sono molteplici.

Comincio subito col dire che ho scelto di recensire non un libro alla volta ma bensì tre libri contemporaneamente; si tratta di tre libri che mi hanno accompagnato nelle ultime settimane. Una nota, proprio a causa di questa particolarità, la recensione non potrà che essere personale, utilizzerò la prima persona per condividere lezioni, reazioni e ispirazioni che ho imparato, avuto e ricevuto da questi libri e per interagire ogni tanto con voi. 

Da appassionato di saggi contemporanei, tutto ha inizio proprio dalla lettura di un capitolo del primo dei tre libri che compone questa serie, quello di Mary Ann Sieghart, The Authority Gap, in cui l’autrice chiede al lettore di pensare agli ultimi cinque letti e di contare quanti tra questi siano quelli scritti da una donna e quanti quelli scritti da un uomo.

Trovo sia un esercizio facile e veloce che consiglio di fare anche a voi, non appena trovate il momento buono; in questo modo potete scoprire quanto vicini o lontani siete da quello che sostiene G. Paley con la sua frase citata dalla Sieghart:

“Women have always done men the favour of reading their work and men have not returned the favour”.

Nel mio caso ho scoperto di essere molto vicino agli uomini che non ricambiano il favore, dato che solo uno degli ultimi cinque saggi che avevo letto,  aveva una donna come autrice; inoltre, ricordo ancora molto bene che proprio l’ultimo di quei cinque saggi – Noise –  aveva non solo un autore uomo ma tre co-autori uomini.

Una volta compreso quanto le mie letture  fossero poco bilanciate, ho scelto di leggere uno di seguito all’altro almeno tre saggi scritti da donne.

Solo pochi giorni fa ho terminato il terzo della serie, Invisible Women, scritto da Caroline Criado Perez, che nel capitolo conclusivo, dopo aver citato Jane Austen,

“The quarrels of popes and kings , with  wars and pestilences in every page; the men so good for nothing and hardlyany woman at all – it is very tiresome”

riporta la storia di Daina Taimina, la matematica lettone che nel 1997 ha fornito un contribuito fondamentale alla soluzione di un problema matematico irrisolto da secoli: l’esistenza del piano iperbolico, che lei riuscì a riprodurre fisicamente grazie all’impiego di una tecnologia di “ultima generazione” che va sotto il nome di ”maglia all’uncinetto”.

È una storia che ha dell’incredibile, almeno lo ha per me, che mentre leggevo andavo alla ricerca di notizie sul web, scoprendo non solo conferme ma ulteriori dettagli che continuavano ad alimentare la mia curiosità e ammirazione.

L’uncinetto, il fare a maglia, è una pratica domestica, lenta, manuale a basso contenuto tecnologico, che di solito sanno svolgere le donne, anche se recentemente è tornata alla ribalta grazie al tuffatore inglese Tom Daley, bronzo olimpico a Tokyo 2020, che tra un tuffo e l’altro lavorava a maglia con l’uncinetto per rilassarsi e concentrarsi; questa abilità combinata con la conoscenza matematica di Daina Taimina, è stata capace di fornire dopo secoli il contributo fondamentale alla comprensione fisica e reale del concetto di spazio iperbolico, quello che sottende la teoria della relatività e che ad oggi è la cosa che più si avvicina alla forma che si pensa possa avere il nostro Universo.

L’esempio appena descritto si può dire che raccolga la sintesi di quanto tutti e tre i libri vanno sostenendo: riconoscere e includere le prospettive e i contributi diversi e complementari che possono essere forniti dalle donne, il 50% della popolazione, non può che portarci a realizzare cose più complete, inclusive, comprensibili e migliori.

Le storie di donne raccolte e descritte in ognuno dei libri sono moltissime e, almeno per il sottoscritto, per la maggior parte sconosciute; leggendole ho provato ogni volta un mix di incredulità e scetticismo che ogni volta, alla prima ricerca web, finiva sempre con lo scomparire e trasformarsi in un nuovo mix fatto di sana curiosità e sentita ammirazione.

La prima storia che porta Katrine Marçal nel suo Mother of Invention esaspera ancora di più quanto fatto emergere dalla storia dell’”uncinetto iperbolico”.

Comincia così :

“In which we invent the wheel and, after 5,000 years, manage to attach it to a suitcase”,

descrivendo il motivo per cui il brevetto della valigia con le ruote sia arrivato solo nel 1972, a firma Bernard Sadow e ricordando però che già nel 1948 un quotidiano di Coventry aveva riportato un fatto realmente accaduto con protagonista una donna che, nella stazione dei treni di Coventry, in Inghilterra, portava da sola, senza l’aiuto di facchini o altri uomini, la propria valigia montata su ruote.

La valigia con ruote nasce come prodotto di nicchia per donne, più deboli fisicamente degli uomini che, proprio perché dotati di maggior forza, erano capaci di portarla a mano senza badare alla fatica e, anzi, vedevano con estremo disappunto ogni supporto o dispositivo capace di sminuire la necessità dell’uso della loro forza fisica.

Anche l’auto elettrica ha avuto una storia simile; secondo quanto riporta la Marcal, siamo in ritardo di un secolo sull’uso dell’auto elettrica perché nel periodo della sua invenzione collocabile tra la fine del 1800 e gli inizi del 1900 la sua silenziosità, dovuta all’assenza del rombo tipico del motore a scoppio e l’accensione tramite un semplice bottone che sostituiva di fatto l’accensione faticosa “maschile” tramite rotazione della maniglia di avviamento, hanno fatto percepire da subito l’auto elettrica come un mezzo per donne, non per “veri” uomini.  È nel 1916 che “Electric Vehicles” una rivista di settore pubblica una serie di articoli in merito alla “sfortunata associazione commerciale della macchina elettrica con la femminilità”. 

A proposito di donne e motori, sempre in Mother of Invention si scopre che il primo e più lungo viaggio in auto (non elettrica) lo detiene Bertha Benz che una notte, insieme ai due figli, percorse i 90Km che la separavano dalla casa della madre; lo fece con più di qualche inconveniente da risolvere durante il viaggio con quel primo prototipo funzionante di automobile; blocco delle perdite di olio e rabbocchi d’olio, figli fatti scendere con i pochi bagagli per sopperire alla bassa potenza dell’auto e riuscire così a scollinare sulle dolci salite tedesche; tutte note di viaggio che, una volta di ritorno a casa, segnalerà al marito Karl, quel Karl Benz di cui tanto si parla, insieme ad Henry Ford, quando si è soliti ricordare e raccontare la storia  dell’automobile.

Che dire poi della giovane Aina Wifalk che, colpita da una malattia improvvisa a 21 anni, resta paralizzata ad una gamba e impossibilitata a muoversi; nonostante questo non vuole arrendersi a una società che non la riconosce e non le consente di muoversi liberamente e arriva a 41 anni ad inventare quello che oggi chiamiamo deambulatore: una struttura piegabile e facile da mettere in macchina, dotata di un maniglione a cui appoggiarsi, quattro ruote, freni e una piccola tavola per potersi sedere all’occorrenza. 

Un altro fattore comune, oltre alle storie, ritrovabile in tutti e tre i saggi sono i tanti dati e ricerche che sostengono ed evidenziano il gap di genere presente in moltissimi settori.

Non potendo esaurire con una recensione tutte le tematiche toccate dalle autrici, scelgo di concentrarmi su un tema molto attuale e comune ai tre i libri: le donne e le discipline STEM (Scienza, Tecnologia, Ingegneria e Matematica).

Nel mondo del “professional computing” negli USA le donne occupano il 26% delle posizioni di lavoro, una percentuale molto bassa se confrontata con la media del 57% di occupazione quando viene considerata la loro distribuzione in tutti i settori di impiego. 

Questo dipende molto da chi prende le decisioni a monte, sostiene Caroline Criado Perez, che fa notare anche come nelle posizioni apicali del mondo accademico, e ancora di più nelle discipline STEM, si trovino principalmente uomini bianchi appartenenti alla middle-upper class; uomini che arrivano a sostenere che l’accademia non sia toccata da problemi di “gender bias”, nonostante studi rilevanti sulla tematica evidenzino esattamente il contrario.

Quanto riportato dalla Perez a proposito di donne e STEM si collega con il racconto storico che la Marçal fa delle donne di metà/fine ottocento; un periodo in cui il “computing”, la programmazione e il calcolo matematico, era riconosciuto come uno dei pochi lavori adatti alle donne che volevano intraprendere una carriera scientifica; il “computing” all’epoca era caratterizzato da uno status molto basso probabilmente perché richiedeva di svolgere gli stessi calcoli più volte, ripetutamente per 8-10 ore consecutive, e si pensava non richiedesse nessuna particolare intelligenza.

Quando Harvard College Observatory comincia a utilizzare il calcolo computazionale dei dati astronomici del suo telescopio, chiama un team di sole donne; nel famoso “Bletchley Park”, sede dell’unità di decodifica dei messaggi criptati generati dal nemico durante la seconda guerra mondiale, il 75% dello staff, guidato dal matematico inglese Alan Turing, era composto da donne.

A partire dagli anni ‘60 il computer e la programmazione e il calcolo iniziano ad acquisire sempre maggiore importanza; tutto è sempre più connesso e dipendente da calcoli e programmazione e gli uomini devono cominciare ad imparare a programmare.

Saranno così le stesse donne ad insegnare agli uomini quel lavoro di “programmazione” che loro conoscevano bene avendolo praticato ormai da più di qualche decennio.

Il “computing” si trasforma così in poco tempo in un lavoro per uomini, dove l’intelletto ora, d’improvviso, fa la differenza e per questo la paga deve essere buona, superiore a quella riconosciuta per lo stesso lavoro alle donne solo pochi anni prima.

Questo cambio di prospettiva improvviso è colto anche dalla Sieghart che ricorda come negli anni ‘70 e ‘80 negli USA i ragazzi che erano considerati “eccezionalmente” bravi in matematica erano 13 volte più numerosi delle ragazze. Eccezionalmente è virgolettato perché ormai, oggi, è stato osservato che questo rapporto si è ridotto a meno di 2 e in alcune nazioni il gap addirittura non esiste più. 

Come ricorda sempre la Sieghart citando le sue ricerche, quello che emerge è che fin da bambini le femmine superano i maschi (anche contro il parere, volere inconsapevole dei genitori, maestre e maestri che le ricerche dimostrano avere una preferenza e una più alta considerazione dei figli e degli alunni maschi); le femmine si sviluppano più velocemente, parlano prima, sviluppano un vocabolario maggiore e ottengono risultati più alti a scuola sia nelle discipline umanistiche sia in quelle matematiche e scientifiche. Negli Usa le donne all’università coprono il 57% delle lauree e il 53% dei dottorati di ricerca; non ci sono dubbi siano loro la maggioranza più qualificata e preparata culturalmente.

La bassa presenza di donne in materie STEM è fortemente legata ad un problema di gender bias; in paesi in cui la parità tra donna e uomini è garantita e reale, la presenza di brave matematiche è sensibilmente più elevata.

Serve incoraggiare le donne a scegliere materie STEM e così facendo può succedere come in UK quando nel 2019 il numero di studentesse che hanno scelto di continuare i loro studi con l’indirizzo scientifico hanno superato per la prima volta quello degli studenti.

Gli incoraggiamenti da parte di scuole e università per aumentare la partecipazione delle studentesse alle materie STEM possono essere semplici come i due esempi riportati in The Authority Gap.

Il primo ha per protagonista l’Università della California, Berkeley, che ha cambiato il titolo del corso da “Computing” a “The Beauty and the Joy of Computing”; così facendo oggi hanno un corso con il 50% di donne che performano tanto o più dei colleghi uomini.

Il secondo ha per protagonista invece la Carnegie Mellon che è risucita a portare, in soli 5 anni, dal 4% al 42% le studentesse iscritte al corso di “computer science” grazie alla scelta di  focalizzare il corso su applicazioni reali e consentendo ai partecipanti di combinare la computer science anche con altre materie.

Gli esempi che ho descritto pur essendo molti, sono solo una minima parte dei tanti raccontati nei tre libri.

Concludo questa recensione tornando al suo inizio e a G. Paley, Grace Paley, una scrittrice; non la conoscevo, e, ancora peggio, mentre leggevo il libro, mi è venuto automatico immaginare che fosse un uomo.

Se anche voi non conoscevate Grace Paley e quando avete letto di lei all’inizio di questa recensione avete immaginato non fosse una donna ma un uomo, allora il mio consiglio è: scegliete uno dei libri, cominciate da quello che vi ispira di più.

Qualunque sia quello che deciderete di leggere, inizierete un viaggio alla scoperta di quanto sia sorprendentemente vero che una metà della popolazione umana sia ai più invisibile e oltre ad essere molto spesso giudicata e sottovaluta nel merito della sua professionalità, ignorata quando si progettano prodotti, meno rappresentata e interrotta molto più frequentemente durante riunioni e interventi,  etc. etc.

Per chiudere questa strana recensione copio e incollo le parole esatte che Caroline Criado Perez dedica all’inizio del suo libro:

“For the women who persist: keep on being bloody difficult”.

Alessio Cuccu

In italiano trovate di Katrine Marçal I conti con le donne. Come gli economisti hanno dimenticato l’altra metà del mondo e di Caroline Criado Perez Invisibili. Come il nostro mondo ignora le donne in ogni campo. Dati alla mano.