Andrea Zanzotto è stato la creatura più straordinaria ad aver abitato il panorama frastagliato della poesia italiana del Novecento. Nato il 10 ottobre 1921, a Pieve di Soligo, in provincia di Treviso, Zanzotto rimase per tutta la vita profondamente affezionato ai propri luoghi d’origine, a quelle strade sterrate, piene di boschi, neve, e faggeti, che sono sempre apparse, nella sua memoria, come terre fiabesche e incontaminate.

La sua scrittura in versi inizia con Dietro il paesaggio (1951), che raccoglie un’esperienza creativa quasi decennale, con la quale viene acclamato dalla giuria del premio San Babila del 1950, presieduta da poeti del calibro di Eugenio Montale, Giuseppe Ungaretti, Salvatore Quasimodo, Leonardo Sinisgalli e Vittorio Sereni. Fin dal suo esordio, Zanzotto venne consacrato come poeta legato al paesaggio, un tipo di paesaggio concepito secondo una visione totalizzante, che comprende l’intero orizzonte culturale da lui contemplato, in tutta la sua incommensurabilità.

Già dalla prima raccolta, infatti, si può osservare come nella poesia zanzottiana confluisca una molteplicità di fonti, un’infinita schiera di voci e di linguaggi che trovano nei versi del poeta pievigino uno spazio in cui coesistere. Se nella fase iniziale della produzione di Zanzotto questa varietà di conoscenze contenute nei suoi versi si iscrive comunque all’interno di una tradizione consolidata della lirica, a partire dalla raccolta La Beltà (1968) si complica ulteriormente la quantità di riferimenti culturali, di lessico e di suoni che vanno a comporre le poesie zanzottiane. Accanto a termini dotti, classicismi e rimandi letterari, infatti, si ritrovano anche parole d’uso quotidiano, formule simili a filastrocche e linguaggi infantili, in una confusione ritmico-linguistica che nelle opere successive si estenderà perfino all’apparato grafico e che diventerà, quindi, la maggiore cifra stilistica della scrittura in versi di Zanzotto. Leggere le sue poesie significa, dunque, ritrovarsi di fronte a tutta la complessità del reale e della contemporaneità, che viene registrata non in modo schematico e preciso, bensì mantenendone una visione integrale e simultanea.

Il frastuono di voci nei versi zanzottiani è evidente se si legge, ad esempio, la poesia Sì, ancora la neve, in cui, tra il sintagma latino «sic et simpliciter» del verso 6 e il rimando a Hölderlin del verso 12 («Hölderlin: “siamo un segno senza significato”»), compare l’espressione «perché si è fatto bambucci-ucci, odore di cristianucci», su cui, peraltro, si costruisce gran parte dell’immaginario del componimento. O, ancora, nella stessa poesia, si trovano termini appartenenti all’italiano arcaico (come «maraviglia», v. 45), accompagnati da cantilene tratte dal linguaggio infantile («pappa bonissima», v. 45) e onomatopee tipiche dei fumetti («sniff sniff / gnam gnam yum yum slurp slurp», vv. 48-49). Allo stesso modo, però, nei versi zanzottiani non viene mai meno il rapporto con la poesia del passato, verso cui il poeta si pone costantemente in modo dialettico: si pensi, sempre in Sì, ancora la neve, alla comparsa del già citato Hölderlin, o ai versi di ispirazione leopardiana, quali «una curva sul ghiaccio / e poi e poi» (vv. 3-4) e «il nucleo stellare / là in fondo alla curva di ghiaccio» (vv. 19-20), composti da Zanzotto in analogia con quelli de L’infinito circa la siepe, o all’apostrofe «o luna, ormai» (v. 56), unico esempio di rilassamento elegiaco presente nella poesia, e, infine, alla ripresa de La fontana malata di Palazzeschi («questi cloffete clocchete ch ch», v. 68). In aggiunta, è da notare come Zanzotto non perda mai occasione per rivolgersi in modo critico nei confronti delle avanguardie a lui contemporanee, anche con una certa ironia («e l’avanguardia ha trovato, ha trovato?», v. 90).

Sì, ancora la neve è un testo di ambientazione nivea e dal forte impianto metaletterario, in cui il candore della neve viene assunto come simbolo della poesia, in tutta la sua sacralità, e come segno di purezza originaria. Il poeta le si rivolge speranzoso che anche nel mondo contemporaneo, nella società consumista, ci sia ancora la possibilità di comporre poesia. Glielo domanda in modo diretto («non mi abbandonerai mai, vero?», v. 106), insieme a molte altre questioni sul senso dell’esistenza e dell’universo («ma che sarà di noi? / Che sarà della neve, del giardino / che sarà del libero arbitrio e del destino», vv. 59-61).

Contemporaneamente a quest’impostazione idillica, del poeta che interroga la natura, in Sì, ancora la neve si sommano altre voci, che vanno a spezzare l’atmosfera leopardiana e che risultano dissonanti le une con le altre. La poesia e l’esperienza poetica dell’autore, attraversate dal chiacchiericcio del mondo in trasformazione, si conclude, poi, con una richiesta di salvezza alla neve (del resto, fin dalla raccolta d’esordio, le immagini legate a una sensazione di freddo indicano in Zanzotto la poesia e la sua proprietà conservatrice). All’ultimo verso, infatti, il poeta richiede «una pinzetta, ora, una graffetta» (v. 107), quindi il raggiungimento di un ordine, di una consapevolezza e di un’unità psichica (per quanto sconvolta dal processo mutevole della Storia), che Zanzotto ha ricercato fin dalla scrittura di Arse il motore (la prima poesia di Dietro il paesaggio), in cui essa compare tramite l’immagine del ponte da attraversare. Tuttavia, quest’ultima disperata richiesta di unità psichica si rivelerà sempre meno realizzabile nelle opere successive di Zanzotto, in cui il rapporto del poeta con il suo paesaggio arriverà a una disgregazione, a un frantumamento condotto dal progresso, che colpirà il suo io psichico e poetico e che porterà, quindi, quest’ultimo a rispondere cercando una possibile e incerta sopravvivenza nel mondo dell’inautentico.

Nei confronti di questo mondo, il lettore non può che trovarsi spaesato, fintanto perso, nel dedalo culturale, letterale e grafico della poesia di Andrea Zanzotto, ma è proprio attraverso le pause, le riflessioni e i blocchi durante la lettura che si creano gli spiragli oltre i quali non si può più evitare di immergersi nei versi e ascoltare «il verde altissimo / il ricchissimo nihil» (Da un’altezza nuova, vv. 9-10) che era tanto caro al poeta pievigino.

Andrea Armellin, Amedeo Bova

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