Quando, nel 2013, le venne conferito il Premio Nobel per la letteratura, Alice Munro era ormai così lontana nel tempo da Alice Ann Laidlow, la bambina di sei, sette anni che, camminando intorno alla propria casa – un edificio in mattoni comprato nel 1927 dai genitori – aveva “riscritto” il finale de La sirenetta, destinando a una vita felice quel personaggio che tanto era stato disposto a sacrificare di sé per amore di un principe. Per compensare le sue sofferenze, la piccola Alice Ann, in un vestitino leggero, calze slabbrate e scarpette, aveva riconosciuto alla Sirenetta quello che, secondo lei, meritava. Non le importava che il mondo ignorasse quel cambiamento: la cosa importante era che lei, Alice Ann – più avanti Alice Munro – avesse fatto ciò che doveva, raddrizzando una storia che le era sembrata a dir poco ingiusta, a essere onesti davvero terribile.
Nel 2013, decadi dopo, Alice aveva raggiunto gli ottantadue anni: una signora malata di cuore, dalla schiena curva e dai corti capelli grigi, gli occhi splendenti, molti anelli d’argento alle dita.
La piccola Alice Ann Laidlow nel suo vestitino leggero – quella bambina determinata a raddrizzare una storia – doveva sembrarle un fantasma, oramai, una presenza curiosa, un’ombra sospesa nella luce incerta della memoria. L’inizio remoto dell’esistenza che, nel frattempo, aveva vissuto.
Non poteva viaggiare, per via del suo povero cuore, così l’organizzazione del Premio inviò fino in Canada, più precisamente a Victoria, nella Columbia Britannica un proprio membro, Stefan Asberg, insieme a una troupe.
Alice sedette accanto a una grande finestra – lungo la strada alle sue spalle, oltre una striscia d’erba e un albero spoglio, passavano auto e furgoni, persone a piedi o in bicicletta – rispose a una serie di (molte) domande e poi accompagnò Asberg e la troupe a visitare la libreria che lei e il suo primo marito, James Munro, avevano aperto nel ’63.
La Munro’s Books – originariamente in uno stabile lungo Yates Street – dall’84 si trova al numero 1108 di Government Street, una strada elegante, in un elegante, direi sontuoso palazzo neoclassico, il Royal Bank Building, progettato nel 1909 per la Royal Bank of Canada.
Non troppo distante, un ampio braccio di Oceano Pacifico s’insinua verso l’interno, tra la città di Victoria e gli Stati Uniti – lo Stato di Washington – sulla cui costa si trova Port Angeles, là dove Ray – Raymond Carver – aveva una casa insieme a Tess Gallagher, con uno studio di fronte alla baia, rivolto al Canada (avverto una grande vertigine, adesso, nello scoprire questo faccia-a-faccia, questo guardarsi simbolico, la prossimità topografica fra un uomo e una donna che, in modi molto diversi, hanno cambiato il racconto e che per sempre saranno imprescindibili per chi, a sua volta, vorrà provare a scriverne uno).
Da molti anni, la Munro’s Books è considerata una delle librerie più belle del mondo. Migliaia di canadesi, e non solo, si sono aggirati tra quegli scaffali, sotto quell’alto soffitto.
C’è un grande quaderno, all’ingresso, su cui chiunque, che abbia comprato o meno, può scrivere quello che vuole.
Nel novembre del 2013, decine di pagine bianche si sono riempite di messaggi di gioia e congratulazioni, segni d’affetto e di stima e rispetto per una figlia del Canada cresciuta a Wingham, Ontario, in un edificio in mattoni, una semplice fattoria, il cui padre allevava volpi, la cui madre, presto malata di Parkinson, aveva insegnato alle scuole elementari. La figlia del Canada, che aveva scritto del Canada e di donne e di uomini solo all’apparenza comuni.
I don’t know who the ordinary people are, because everyone is extraordinary to themselves. In fact, I read one review that said ‘These people don’t have any extraordinary experiences. They’re civil servants, farmers, accountants, nurses’. Well, nurses have about the most dramatic life I can think of.
Lei, Alice Munro, era arrivata là dove nessun altro figlio del Canada era arrivato, prima di allora, là dove, ne sono certa, neppure lei aveva immaginato di poter arrivare.
In ogni caso, non tenne un formale discorso di accettazione, non dovette salire sul palco, inchinarsi e stringere mani (cosa che, anche qui sono sicura, le procurò un gran sollievo) e neppure indossare un vestito da sera.
Il giorno dell’intervista portava un maglione, un morbido cardigan nei toni del nero e del grigio, un foulard nero intorno al collo, i capelli freschi di parrucchiere, le dita rugose ingioiellate, e se ne stava seduta tra la finestra e uno scorcio di libreria – libri e cd.
Ad alcune domande faticò un po’ a rispondere: cercava le parole giuste, come faceva da tutta la vita.
Davanti ad altre, invece, si mise a ridere.
Ecco un esempio:
“Did you ever see yourself win the Nobel Prize?”
Una sonora, improvvisa, sincera risata.
“Oh no, no! I was a woman!” Una provocazione, ovviamente, e un’altra risata. “But there are women who have won it, I know.”
A volte abbassava gli occhi, perdendosi un attimo nei propri pensieri, mentre le auto e i furgoni, le persone a passeggio o in bicicletta, continuavano a percorrere la strada che aveva alle spalle.
C’è qualcosa di molto adeguato ad Alice Munro, e a tutti i racconti che ha scritto, in quest’intervista “domestica” – per quanto, certo, obbligata – in questo suo continuare a restare accanto a persone, auto e furgoni, seduta senza particolari formalità, con indosso un cardigan, persino in un’occasione così solenne (e mi torna alla mente la splendida Wislawa Szymborska, la quale, in attesa di pronunciare il proprio discorso a Stoccolma, nel 1996, si era accesa una sigaretta; qualcuno allora le disse che avrebbe dovuto aspettare che, a farlo per primo, fosse il re di Svezia – questione di protocollo – e lei, Wislawa, si mise a ridere piano, una risata gentile ma autentica, con gli occhi accesi: il protocollo doveva sembrarle così tanto buffo).
Anche in quell’occasione, Alice rimase dov’era di casa, là dove vive e ama e lavora e soffre e gioisce davvero la gente, tutte quelle persone comuni solo allo sguardo di chi guarda il mondo dall’alto, e dunque non lo guarda affatto eppure pretende di scriverne. Lei lo guardava da dentro – e di sicuro continua anche adesso, ora che è andata “in pensione” – guardava gli esseri umani nelle loro vite, nei loro piccoli o grandi momenti, tutti, prima o poi, di passaggio su un ponte galleggiante precariamente, e splendidamente, sospeso sull’acqua, tutti occupati, da sempre e per sempre, a “uscirne vivi”, tutti davanti al mistero.
This is what really interests me and what draws me and what is the most important thing about writing fiction, I think: not to dissect peaple but to celebrate the essential mistery.
E c’è qualcosa di corrispondente anche nel breve racconto, in risposta alla prima delle domande di Asberg, di una sé stessa bambina intenta a girare intorno a casa, facendo il proprio dovere in segreto, senza che nessuno gliel’avesse chiesto: dare a una storia il giusto finale. Non contava che il mondo sapesse: ci sono cose che dobbiamo fare – a ciascuno il suo – che il mondo le veda oppure no, che se ne accorga o non se ne accorga.
Scrivere è una vocazione, una chiamata senza chiamante, il nostro viaggio dapprima segreto, un fuoco che brucia invisibile. Lo sguardo degli altri è la conseguenza, non la ragione.
I knew that I was going to write. I had to.
Così, seduta tra i libri e una strada qualunque (i suoi due mondi), in un soggiorno a Victoria nella Columbia Britannica, Alice Munro, ottantadue anni, vincitrice del Premio Nobel per la letteratura, rispose alle domande di Stefan Asbeg spesso pensandoci sopra, a volte scoppiando a ridere – ridere sempre e comunque di sé, non degli altri.
Era una bella giornata d’autunno, splendeva il sole.
Lei era a casa. Parlava, e a volte rideva, lo sguardo acceso. Lo sguardo giovane, in fondo. Ancora di più: lo sguardo di una bambina – stupore e meraviglia – sotto i corti capelli grigi. E mentre Alice parlava (la scrittrice Alice Munro, coi suoi racconti, i suoi libri, il suo Premio Nobel), Alice Ann Laidlaw, sei, sette anni, in un vestitino leggero, Alice Ann Laidlaw, nella luce incerta della memoria, lontana nel tempo ma viva, continuava a girare in tondo, a Wingham, Ontario, intorno a un edificio in mattoni accanto ai recinti dell’allevamento di volpi, coi loro suoni e odori, determinata a ridare alla Sirenetta quello che meritava.
Non le importava che nessuno al mondo sapesse: c’erano lei, Alice Ann, e un personaggio, soltanto loro, e camminavano insieme.
Ecco il mestiere di scrivere, prima di qualunque premio. Ecco che cosa significa. Ecco il segreto.
Intorno a quella bambina, alberi e boschi, colline e campi e l’ansa di un fiume. Intorno a lei, un’estate in Ontario, l’origine di un lungo viaggio (fatto soltanto di quello che è necessario), un viaggio durato una vita dentro la vita.
Elena Varvello
E tu cosa ne pensi?