Mazzarrona è il nuovo romanzo di Veronica Tomassini, uscito lo scorso febbraio a cura di Miraggi Edizioni. È stato candidato al premio Strega di quest’anno.
È un romanzo che ricorda ed evoca in prima persona vicende adolescenziali vissute da una ragazza senza nome, nell’omonima periferia (Mazzarrona, periferia di Siracusa) a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta.
L’ambientazione è un quartiere desolato e indolente, in stato di abbandono materiale e morale, che diviene simbolo di ogni periferia. La poetica della scrittrice Veronica Tomassini è in questo fedele a sé stessa, nel reiterare il suo racconto di aree suburbane, di esistenze dimenticate e perdute. Con occhio impietoso e denudante va nuovamente a cercare luoghi di povertà e abbandono, a raccontare amori incompiuti o difficili, inopportuni e pericolosi, come accadeva in modo diverso ma emotivamente simile in alcuni suoi lavori precedenti, come Sangue di cane (definito caso letterario, edito da Laurana, 2010), Il polacco Maciej (Feltrinelli Zoom 2012), Christiane deve morire (Gaffi, 2014) e L’altro addio (Marsilio, 2017).
La voce narrante nel romanzo fin da principio prende le distanze dall’ambiente relativamente protetto e borghese in cui la società l’ha collocata e corre a mescolarsi all’umanità smarrita e sofferente degli isolati di Mazzarrona. La Tomassini descrive questo suburbio come una lingua di terra afflitta, stretta tra la ferrovia e le ciminiere, un ghetto tra le torrette nere delle fabbriche e un mare velenoso di scarichi, un non-luogo dove l’indolenza dei silenzi polverosi e allucinati del mezzogiorno, insieme all’assenza di qualsiasi stimolo o speranza di lavoro, porta i giovani nel precipizio della droga.
La protagonista della storia è indubbiamente attratta da questo mondo per una forma di struggimento adolescenziale, mentre teme e disprezza il proprio stato borghese. Non si identifica nel proprio ambiente – il liceo e i compagni – e, pur tra mille autodenigrazioni e crisi di identità – l’Andreina di Moravia e l’Aspidistra di Orwell come spettri di opportunismo, come simboli di un’essenza vile, borghese che la insegue – sceglie la devozione per il suo grande amore preteso, Massimo. Tossicodipendente ormai sfinito dall’eroina, lui finisce col cederle forse più per inerzia che non per amore corrisposto, coinvolgendola però suo malgrado nell’umanità disperata che lo circonda, facendone una testimone e compagna inappropriata, perché incolume e intatta
Non mi bucavo. Non ero malata di Aids. Era solo la morte degli altri, che avanzava implacabile e lenta, ad avermi contagiato […] Ero fortunata, la mia temperanza mi teneva fuori dagli impicci […] Il mio male cospirava, apparteneva al mio spirito in ombra […] Avrei dovuto forse temere la mia curiosità, un mostro con mille teste, o almeno due a farsi la guerra: le due nature esattamente in conflitto, la mia provenienza borghese e la mia noia ingovernabile o il desiderio di deregolamentare o l’inappropriatezza. O cosa ancora?
Alle tematiche care alla Tomassini non mancano certo gli antecedenti, poiché il disagio giovanile e la desolazione delle periferie urbane post-industriali attraversano molta letteratura del secondo novecento, facendo da sfondo e contraltare a stati d’animo tormentati e afflitti – come nell’ultima, cupa e introspettiva Elsa Morante di Aracoeli – o intervenendo nella narrazione da veri protagonisti – come negli scritti di Pasolini, nelle sue periferie barbare e impure, o nel ritratto dell’umanità popolare e operaia che si affanna nei vicoli di Pratolini o di altri neo realisti. Senza scomodare poi L.F. Céline, o Curzio Malaparte come substrato per quell’avversione a certa umanità borghese, asservita alla società imperante, il cui successo esala volgarità e poggia sull’altrui quotidiana sofferenza.
Quanto alle dipendenze, siano esse da alcool o da droghe, inutile ricordarne i riferimenti radicati e diffusi in tutta la letteratura più recente, valgano per tutti il Bulgakov di Morfina (1927), ma ancor più il diario-testimonianza di Christiane Felscherinow (Noi i ragazzi dello zoo di Berlino, 1981) divenuto emblematico per una intera generazione, passando per il Burroughs di Junkie (La scimmia sulla schiena, 1953), o per l’Huxley de Le porte della percezione (1958) che, com’è noto, ispirò persino il nome della celebre band musicale “The Doors”.
Pertanto l’unicità – va da sé – dell’opera di Veronica Tomassini non risiede chiaramente nelle tematiche, già ben rappresentate benché mai certamente esaurite in letteratura. Questo non solo nei testi, ma anche nelle biografie di molti scrittori, sperimentatori seriali di degrado sociale, uso di droghe o deplorazione dello stato di borghese. Né si può dire che il tema dell’amore difficile per uomini perduti sia da un punto di vista letterario poco frequentato. Ma la narratrice va oltre. I suoi profeti di strada resi vili dalla droga, dall’alcool, dalla povertà che diventa degrado e violenza, sono mezzo per raggiungere una poetica più alta e universale, dell’abbandono e dell’impossibile, che scandaglia cupi anfratti di solitudine umana, intesa come mancanza, strenuo desiderio di essere amati e di affermare un futuro e una speranza.
Le vicende sono inquadrate senza pietismo né condanna, ma piuttosto con intento di lucida testimonianza, non indenne da bagliori di lirismo, ispirato tanto da apparire ipnotico, benché inframmezzato da passaggi crudi, realisti fino allo stremo, che danno all’insieme una dimensione di misurato equilibrio, di credibile tensione.
Tecnicamente non c’è una vera trama nel testo, ma piuttosto un alternarsi di descrizioni e riflessioni, fatti dichiarati d’improvviso con un nitore sferzante, doloroso, che si ripetono in cerchi concentrici, ritornando con le loro immagini come il ritornello di una canzone. In questo è funzionale che il tempo della narrazione prenda il via dalla fine della vicenda, l’incipit è il momento del ritorno, è evocazione.
Sono tornata a Mazzarrona. Le baracche. L’umanità vile e sregolata. Non sorrido più. Sono sveglia. Guardo l’ora. Sono le 10.45.
La voce narrante dall’incipit ritorna allora indietro con il ricordo, all’inizio di tutto, e ripercorre le vicende ben note più e più volte, andando a fondo, facendo ruotare i personaggi come su una giostra dapprima accennata, sfumata, poi in episodi e dialoghi che li rendono via via più nitidi, compiuti, intensi. Massimo bianco, pallido, profumato, la camicia bianca chiusa ai polsi, Mary bellissima, la negazione della morte con il suo corpo vivo e carnoso. Poi c’è Romina, l’amica tanto amata, la sua risata rauca, le corse, la vita pratica e adulta, il suo lottare. Romina con la sua praticità è pura salvezza.
Sono fedeli a loro stessi i personaggi di Mazzarrona, e dichiarano subito tutto, mostrando ogni cosa di sé, con la loro fisicità, i loro comportamenti. La narrazione rifugge la volgarità del colpo di scena, è progressiva realizzazione di ciò che è preannunciato, in un ritmo circolare che ritorna, confermandosi, ampliandosi, fino a lasciare esterrefatti di fronte al compimento di ciò che era chiaro fin dalle prime pagine. C’è l’incedere tetro, ritmico di un calvario stralunato, l’avvicinarsi ad un epilogo preannunciato, che nella sua realizzazione lascia sgomenti più dell’imprevisto.
È chiaro da subito che Romina si salverà – la sua stessa essenza di persona ha a che vedere con la salvezza – che in Mary vincerà la bellezza, la freschezza, il turgore del corpo. La sua carne di donna bellissima, rosea e giovane, deciderà di non soccombere alla consunzione e al degrado, ma piuttosto di perdere una battaglia dignitosa, fiera, lo scontro epico con il cancro.
Il personaggio centrale, più intenso, è chiaramente Massimo, l’amore preteso, colui che non si può salvare, l’agnello che vive fino in fondo il martirio della propria debolezza. Massimo è il simbolo di come il dolore possa divenire innocenza, a prescindere dall’errore, se pur reiterato. Perché se c’è qualcosa di pulito a Mazzarrona, tra le cartine di stagnola e le siringhe infilate nelle crepe della terra, è il dolore.
Se le descrizioni sono dei colpi di frusta, tra i cumuli di lamiere, le case di amianto, i sentieri con gli spuntoni dei cardi, il sole polveroso e verticale che ferisce gli occhi e sprona alla più arresa indolenza fisica e morale, il tema centrale del libro pare proprio il dolore come condizione umana universale, nucleo da cui ogni squallore emana e trae nutrimento. In quest’ottica la sofferenza è causa e non conseguenza dell’eroina. Un dolore sempre presente, in alcuni luoghi più che in altri – e grazie proprio alla frequentazione di quei luoghi finalmente detto, dichiarato, riconosciuto come tale – che scorre nelle vicende del libro come una liturgia, un rituale amaro che si ripete nell’alternarsi di pace dolorosa [cit dell’autrice stessa, da C. Pavese, ne Il carcere] e rota, l’astinenza dall’eroina che morde la carne, piega le ginocchia. Un dolore la cui dichiarazione di esistenza è comunque liberatoria, rispetto alla futilità di coetanei vuoti e segreganti, proni alle mode, che rendono il cortile di un liceo un inferno peggiore delle lamiere d’amianto della periferia più desolata.
Quando presi a bucarmi, scriveva Christiane F. (Christiane F., Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino) mi sono sentita così superiore, così malvagia, così unica.
E il controcanto della Tomassini, a questo, recita così: Non importava quanto fosse grande la sventura, quando accadeva, ed eravamo lì, in un punto esatto del deserto, soccombere era persino determinarsi. Esistere nel nostro modo maldestro di averla incontrata la vita, qualsiasi cosa significasse.
Le ferite insanabili della vita di strada, le dinamiche feroci e ineluttabili che accompagnano giovani vite fino al loro insensato epilogo lasciano in bocca al lettore un sapore amaro. Ma rimangono bagliori di improvvise rivelazioni, una regia candida e magistrale del raccontare. Un testo raffinato, nella sua aggettivazione mai pigra, nel linguaggio multiforme, a tratti crudo, gergale, a tratti etereo, colto, ricco di riflessioni e riferimenti intertestuali che fanno riflettere.
Una lettura che ha la grazia del chiaroscuro, e contenuti di conoscenza, da cui si esce con la sensazione di aver compreso qualcosa di più che – al di là delle particolarità del narrato – profondamente tutti ci riguarda.
Isabella Bignozzi
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