Per una lira è il titolo di una canzone di Lucio Battisti che comincia così: Per una lira io vendo tutti i sogni miei. E poi la voce a strisce di Battisti racconta la storia di qualcuno che a malincuore si distacca da una parte di sé. Ascoltandola, ho sempre pensato a chi scrive. In particolare agli esordienti. Chi, per la prima volta (e spesso per una lira) consegna il proprio destino al mondo. Nell’incertezza e nell’imprecisione, un esordio insegna a scrivere più di un capolavoro (anche quando le due cose coincidono: David Foster Wallace, La scopa del sistema, 1987). Per una lira è uno spazio dove leggendo le nuove voci della narrativa, italiana e straniera, metteremo in luce alcuni aspetti di un romanzo legati al gesto dello scrivere per la prima volta, ovvero alla scoperta della propria voce.

Alessandra Minervini è nata a Bari ma si sposta continuamente per studio, lavoro e amore (a seconda dei periodi). Dopo la laurea in Scienze della comunicazione a Siena (2003), si è diplomata alla Scuola Holden nel 2005, ha frequentato il master Rai in sceneggiatura. Collabora con la Scuola come consulente editoriale e docente di scrittura. È editor freelance, si occupa di orientamento editoriale. Suoi racconti sono apparsi sulle principali riviste letterarie italiane e francesi. Ha pubblicato Overlove (LiberAria 2016); Bari, una guida (Odos Edizioni); Una storia tutta per sé. Raccontare se stessi per essere (più) felici (Les Flaneurs 2021); Una bella fetta di torta (Progetto Apri, 2023). In uscita un suo libro di racconti e un saggio sulla scrittura breve. Scrive di libri e di scrittrici su Exlibris20 e la Repubblica Bari. Il suo sito è alessandraminervini.info.


Monica Acito, Uvaspina, Bompiani 2023

È nato con una voglia sotto l’occhio sinistro, come un pallido frutto incastonato nella pelle: Uvaspina si è abituato presto a essere chiamato con quel nome che lo identifica con la sua macchia. A quasi tutto, del resto, è capace di abituarsi: a suo padre, il notaio Pasquale Riccio, che si vergogna di lui; alla Spaiata, sua madre, che dopo aver incastrato Pasquale Riccio con le sue arti di malafemmina e chiagnazzara non si dà pace di aver perduto il proprio fascino e finge di morire ogni volta che lui esce di casa. Ma soprattutto Uvaspina è abituato a sua sorella Minuccia, abitata fin da bambina da un’energia che tiene in scacco il fratello con le sue esplosioni imprevedibili, le ripicche, la ferocia di chi sa colpire nel punto di massima fragilità, come quando gli dice: “Avevano ragione i compagni tuoi, sei veramente un femminiello.” Eppure, solo Uvaspina conosce l’innesco che rende la sorella uno strummolo, una trottola capace di ferire con la sua punta di metallo vorticante. E solo Minuccia intuisce i sogni di Uvaspina, quando lo strummolo la tiene sveglia e può scrutare i suoi finissimi lineamenti nel sonno. Intorno a loro, Napoli: la città dalle viscere ribollenti, dai quartieri protesi verso il cielo, dai tentacoli immersi in quel mare che la fronteggia e la penetra.
bompiani.it/


Lezione n. 52

Scrivere personaggi indimenticabili

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Quando ho letto dell’uscita di Uvaspina, esordio della promettente Monica Acito, ho pensato: ecco, l’ennesimo romanzo “tragebondo”, famiglia scassata, eroina giovane e tartassata da una marea di lacrimoni che si riversano nel classico lieto fine liberatorio di autodeterminazione e voglia di vivere. Di solito, il successo preannunciato di un romanzo famigliare si fonda su due considerazioni: personaggi a effetto e scrittura che resta sulla superficie delle parole.
L’ho scelto con queste premesse per la mia rubrica.
E come succede ai personaggi del romanzo: sono stata fottuta.
Uvaspina è un romanzo molto bello, rivendico la semplicità di questa frase dentro cui c’è un’enorme  contentezza per averlo scelto, letto e per essere stata smentita proprio dai personaggi e dalla scrittura di Acito. I primi sono straordinari per vividezza e finzione insieme, non si lasciano fregare dalle lusinghe editoriali e se ne fregano del lettore inconsapevole; la seconda, la scrittura, è il risultato di un coro di voci capaci di lavorare in armonia senza disdegnare ogni tanto un assolo, un occhio di bue malinconico e crudele che striscia sulla pelle di chi legge, lasciando il segno. Sono personaggi che potrebbero cenare insieme a Eugenia di Ortese così come a zia Patrizia e alla signora Gentile di Sorrentino, passando per Filumena Marturano e Domenico Soriano di Eduardo e tutta la sua compagnia bella. Uvaspina ha messo in moto una curiosità, solitamente sepolta dall’arrendevolezza delle più comuni intenzioni narrative. Così, ho deciso di parlarne direttamente con l’autrice del romanzo. Seguendo un mantra che sicuramente entrambe condividiamo: “Quelli che mi lasciano proprio senza fiato sono i libri che quando li hai finiti di leggere e tutto quel che segue vorresti che l’autore fosse tuo amico per la pelle e poterlo chiamare al telefono tutte le volte che ti gira.”


La prima impressione che si ha, conoscendo pagina dopo pagina Uvaspina, è che a modo loro siano tutti e tutte dotati e dotate di cazzimma: sono spudorati e nello stesso tempo fragili, furbi e paradossalmente sinceri. Dove nasce la prima scintilla creativa che ha dato origine alla tua band di personaggi?

Il mondo dei personaggi di Uvaspina si è formato dentro di me come una muffa: sono stati tutti creati dall’umidità dei luoghi che ho abitato. Piano piano, hanno preso le sembianze di stalattiti e stalagmiti che si sono messi a precipitare dentro di me, dal basso e dall’alto. Volevo raccontare una storia che parlasse della tirannia che si instaura all’interno di certe famiglie, quando un membro detta le leggi e, al suo cospetto, bisogna stare zitti e trattenere pazientemente il respiro. I tiranni sono il perno e il collante di molte famiglie e Minuccia è il tiranno di Uvaspina: quando Minuccia tuona, finisce sempre per piovere.

A nord della testa della Spaiata ci stavano i malapensieri, le sigarette di contrabbando e le puntate di Febbre d’Amore; a sud, tutti i funerali della sua vita, in cui l’avevano pagata per chiagnere e fottere, e che le avevano lasciato un talento naturale per la sceneggiata e l’arte di sapersi fingere morta o viva a seconda di come cambiava il colore dalla pummarola nel ragù. Chi è la Spaiata?

Senza paura, ammetto che Graziella la Spaiata è il mio personaggio preferito. Quando ho scritto una scena che la riguarda, in particolare, erano le quattro del mattino e ho pianto come una disperata; poi, dopo cinque minuti, mi sono sentita ridicola. Quanto lei, come lei.
La Spaiata è una chiagnazzara, una donna pagata per piangere ai funerali, donna sguaiatissima e volgare che ogni mercoledì sera inscena la sua morte rituale. La Spaiata sono tante donne della famiglia o donne del paese dove ho trascorso l’infanzia, forse sono io stessa nel mio essere spesso miserabile e ridicola. Lei elemosina amore e cerca di prenderselo facendo pietà: inizia la sua via Crucis personale dalla cucina al soggiorno, dal bagno fino al letto di ottone, dove si ritrova a boccheggiare come una grossa rana pescatrice. La Spaiata è puzza di sigarette di contrabbando, odore di cipolla sfritta nell’olio, rossetto rosso, bisogno disperato e grottesco di essere presa, raccolta e amata da qualcuno.

“Pasquale Riccio l’aveva notata subito, la Spaiata: quel giorno lei piangeva il padre più di lui! Ma quanto piange bene questa, ma quanto grida bene. Chissà se la porto nella Mercedes di papà, che mi combina questa con ‘sta voce.” Come si costruisce un personaggio così odioso come Pasquale Riccio?

In realtà è stato molto semplice. Mi è bastato pensare a certi uomini che non mi hanno voluta. Un uomo che non ti vuole sa essere crudele nella sua semplicità: gli basta un’alzata di spalle, un sorriso, un modo preciso di prendere una sciarpa da un attaccapanni o di sfilare un libro da una mensola. Ogni loro gesto, anche il più pacato, chiarisce: “Io non ti voglio”. Te lo gridano con i gesti, con lo sguardo, costruiscono il disprezzo in modo educato e te lo ricamano addosso, fin quando non lo indossi come un tubino attillato. Ho pensato a loro mentre incontravo Pasquale Riccio, perché gli uomini che ricordo di più sono quelli che non mi hanno voluta.

“Quando Minuccia si inceppava non bastava tirare lo spago e la cordicella perché, proprio come lo strummolo, lei iniziava a girare all’impazzata, e nella sua traiettoria diventava un assopigliattutto, faceva il gioco della scopa d’assi e della smorfia. Tutto si pigliava.” Com’è nata Minuccia nella tua testa?

Ho incontrato Minuccia per la prima volta di notte, stavo guardando un film con mio padre. Io e lui non ci vediamo mai perché io abito a Torino e quando torno giù lui lavora fino a notte fonda, e ancora più raramente guardiamo film insieme. Non so perché, quella notte eravamo accanto al fuoco e io cominciai a guardare le braci, le scintille e poi lo schermo della televisione: nella mente comparve, senza permesso e senza preavviso, l’immagine di uno strummolo. Sì, proprio di uno strummolo, un giocattolo di legno antichissimo. L’ho visto danzare nel fuoco e da quel giorno non ho più lasciato Minuccia: quella notte l’ho incontrata ed è stata lei a guidarmi. Io ho seguito il suo passo claudicante, tutto storto, e mi sono fidata di lei, anche se tenere questo personaggio dentro mi ha fatto male e mi ha intossicata per tanto tempo.

“Uvaspina aveva ottenuto il primo posto a un concorso di racconti, sempre alle medie: la sua storia parlava di un bambino che scappava di casa per vedere se qualcuno lo cercava; il criaturo, però, non veniva cercato da anima viva, anzi, nessuno se ne accorgeva che lui non ci stava più, ma nel frattempo lui faceva fortuna e cambiava completamente vita.” Quando hai capito che avresti raccontato la storia di Uvaspina, da dove viene questo personaggio e non hai mai avuto paura che non piacesse agli editori e poi ai lettori?

L’ho capito a novembre 2020 che avrei raccontato la storia di Uvaspina. Quando ero piccola bevevo dei decotti, degli sciroppi e dei liquori a base di uvaspina per farmi passare la tosse, perché ero una bambina molto curiosa e mi fottevo le sigarette dalla borsa degli adulti. Avevo sempre una tosse strana e secca, perché mi nascondevo a fumare le sigarette sotto la rupe, senza aspirare perché non ne ero capace. Mi dicevano che l’uvaspina era un frutto che veniva spremuto per ricavarne un succo che avrebbe guarito i dolori degli altri. Negli anni mi sono interrogata spesso sulle cose, i frutti, ma anche le persone che sembravano esistere soltanto per essere pigiate, spremute e rendere l’esistenza degli altri meno amara. Non mi sono mai posta la domanda: piacerà ai lettori o agli editori?, perché già so che non potrà mai piacere a tutti, è una storia esagerata, eccessiva, iperbolica e a tratti forse anche disturbante, ma non avrei potuto narrare una cosa diversa e soprattutto scriverla in un altro modo. Scrivo più o meno così da quando sono piccolina, è come un tic, un impulso ossessivo, ho un rapporto dispotico e forse tossico con la scrittura. Se non scrivo per un po’ di tempo, io non funziono più, sono una bambola rotta e buttata nella monnezza, non servo a niente. Mi ingolfo, sono inutile alle attività pratiche e ai rapporti umani, mi viene difficile fare tutto.

Come sei arrivata alla pubblicazione, quando hai capito che avresti scritto questa storia?

Nel 2021 ho incontrato quella che sarebbe diventata la mia agente, Carmen. Io stavo scrivendo già Uvaspina ma non lo avevo terminato: nell’estate del 2021 mi sono chiusa a Forcella col pc e il ventilatore puntato in faccia. A settembre mi hanno chiamata da Torino per insegnare a scuola e ho continuato la stesura ogni giorno quando tornavo da lavoro: trascorrevo i pomeriggi le serate con il mio criaturiello e la mattina dopo mi svegliavo presto e andavo in classe da altri criaturielli. Dopo le vacanze di natale 2021-2022, il romanzo ormai era finito e con Carmen abbiamo deciso di inviarlo ad alcune case editrici che ci sono sembrate adatte. Tra quelle che hanno risposto, Bompiani ci è sembrato il luogo migliore per accogliere questa storia.

“Antonio si mise a ridere: la sua risata sembrava una jastemma in mezzo agli stucchi ai paraventi, un sacrilegio per le vecchie immobili e gli occhi spaventati dalla Marunnella. Uvaspina pensò che Antonio aveva la faccia di chi fa cadere i crocifissi solo con una risata”. C’è un sentimento che scaraventa dentro i personaggi, come Antonio per esempio, ed è l’assenza di vergogna. Come hai lavorato per superarla prima come autrice e poi dentro i tuoi personaggi?

Paradossalmente ho superato la vergogna perché ne ho provata troppa. Quando ero piccola mi nascondevo, ora non posso farlo più. Sono sempre stata la bambina e poi la ragazzina strana, quella che non sapeva campare, quella che scriveva, mi vergognavo tantissimo. Una volta avevo vinto un concorso di racconti per ragazzini, in prima media: non volevo salire sul palco a leggere il racconto, volevo mandarci mia sorella che ha due anni meno di me e che è praticamente la mia gemella. Ho provato così tanta vergogna che a un certo punto mi sono scocciata e ho detto: basta, non ce la faccio più. Non volevo continuare a vivere in quel modo, non volevo continuare a sentirmi un fenomeno da baraccone e a provare scuorno pure mentre attraversavo la strada. Questa cosa si è trasformata in un’assenza totale di decoro e vergogna nei miei personaggi, che sono spudorati, sfacciati, spavaldi. A livello caratteriale, negli anni mi sono fatta esuberante e ho indossato abiti nuovi, ma vengo da un passato di vergogna totale. Adesso non posso più nascondermi nei bagni come facevo da piccina, quindi tanto vale stare in mezzo e provare a ballare, meglio se una tammurriata.

“Quel quartiere era una bomboniera che tutti volevano mettere in soggiorno, ma Chiaia non ci sapeva stare ferma su una mensola. Chiaia era costruita in verticale, si spingeva in alto e campava sulle punte dei piedi, in mezzo a una città che voleva afferrarla per il colletto e metterla seduta per terra.” I luoghi sono personaggi vitali e crudeli almeno quanto le persone del romanzo, ti sei ispirata a film, romanzi, visioni in particolare per raccontare Napoli?

Mi ha aiutato molto l’educazione stradale che ho accumulato vivendo, dai diciotto anni in su, sempre nel centro storico: Forcella, San Biagio dei Librai, via Miroballo al Pendino, borgo Orefici. Credo di essermi svegliata veramente quando me ne sono andata a vivere da sola a Napoli: ero una bambina, avevo finito il liceo e venivo da un piccolissimo paese del Cilento. Tutto il materiale denso e vischioso che ho toccato in quegli anni, si è poi sedimentato dentro di me e ha creato una scorza che continua sempre a pulsare, pure sotto le Alpi piemontesi.
A livello letterario, invece, ho avuto tantissime infatuazioni che sono diventati, negli anni, amori stabili e fedeli. Citarli tutti sarebbe impossibile e sicuramente dimenticherei qualcuno, ma ti direi: Domenico Rea, Raffaele La Capria, Giuseppe Patroni Griffi, Matilde Serao, Anna Maria Ortese, Ruggero Cappuccio, Curzio Malaparte, Fabrizia Ramondino e ho l’impressione di aver saltato qualche nome. Non posso prescindere nemmeno da Raffaele Viviani, Salvatore Di Giacomo, Libero Bovio, Roberto Murolo, Eduardo De Filippo. E poi sono innamorata in modo dissennato di Giambattista Basile, l’autore del Pentamerone, Lo cunto de li cunti, il più grande scrittore del barocco napoletano: mi ha conquistata e mi ha dato un immaginario, regalandomi barocchismi, gusto per l’orrore e per il mostruoso, feticismo per la fantasia e la costruzione di mondi poetici e raccapriccianti. Il mio modo di raccontare la città non è oleografico, cartolinizzato e stereotipizzato, ma si rifà molto a quella fantasia iperbolica, a quel raccapriccio e a quell’inventiva perturbante e surreale: credo che sia un modo antico e nuovo di raccontare la città, un modo contemporaneo di decodificare la realtà di una città tanto complessa e porosa.
 Anche le opere del periodo napoletano di Boccaccio e la “Vaiasseide” di Giulio Cesare Cortese hanno plasmato il mio modo di raccontare la città. Non posso dimenticare nemmeno il maestro Roberto De Simone. A questa domanda potrei rispondere per ore e non sarei mai contenta, mai sazia.

Hai una scrittura che non si prende scuorno di niente e di nessuno, e fai bene. Come hai lavorato alla limatura, quante stesure ci sono state del romanzo e qual è la cosa di cui sei più fiera?

C’è stata una prima grande stesura che è durata da novembre 2020 a gennaio 2021, poco più di un annetto. Quando poi il romanzo è stato acquisito da Bompiani ho fatto un bellissimo lavoro con Giulia Ichino, la mia editor. Lei ha saputo illuminare le zone d’ombra e darmi dei suggerimenti a cui non avevo pensato, degli spunti nuovi. Quindi con lei ho fatto una sessione di editing durata più o meno tutta l’estate, un editing molto “illuminato” e didattico, da cui ho imparato molto. La parte finale dell’editing l’ho svolta con Alessandra Maffiolini. La cosa di cui sono più fiera è proprio questa, essermi interfacciata con dei professionisti da cui ho imparato davvero tantissime cose in pochissimo tempo, e adesso mi conosco un po’ di più come autrice.

Ho letto le tue note e i tuoi ringraziamenti, non ti risparmi nemmeno lì e fai bene. Raccontaci un aneddoto accaduto durante la scrittura del romanzo e poi scegli tu una frase e lasciala qui, come mantra per i futuri lettori e lettrici.

Ho ringraziato molte persone che si sono prese cura di me in vari periodi e ho voluto farlo nel migliore dei modi.
Il grosso della scrittura del romanzo l’ho fatto a Forcella, era l’estate del 2021: mi svegliavo già sudata e mi puntavo il ventilatore in faccia. Fumavo talmente tanto che mi sono beccata la bronchite, tossivo, non avevo voce. Mi davano fastidio i vestiti addosso e scrivevo praticamente in mutande. Accendevo e spegnevo Marlboro Silver Blu in continuazione, ero allucinata dai personaggi e provavo soprattutto compassione per la Spaiata, una volta mi è sembrata di vederla seduta su una sedia di plastica nel vicolo, ero completamente fuori dalla realtà. In quel periodo ascoltavo tantissimo Enzo Avitabile, ricordo quella stanzetta buia con il ventilatore acceso e Salvamm ‘o munno a volume altissimo, tutto avvolto in una puzza stagnante di sigarette. La frase che lascerei come mantra ai futuri lettori è proprio il testo della canzone di Enzo Avitabile che ho citato, che vuol dire “Salviamo il mondo”: Cercate di portarvi in salvo, nel modo che preferite, ma portatevi sempre in salvo. E non fumate tanto come me.


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