Quando ci si pone in osservazione del mondo culturale e intellettuale del Novecento italiano, forse troppo spesso si trascura che i suoi protagonisti sono stati tutti (o quasi) figli di un paradigma educativo-formativo che aveva tra le sue tappe naturali anche il servizio militare di leva. Istituita nel 1861 e definitivamente cessata nel 2004, la cosiddetta naja ha caratterizzato una parentesi vitale di molte generazioni. Eppure, questa esperienza se da un lato ha generato alcuni bias cognitivi riscontrabili ancora nella classe dirigente, raramente ha lasciato il segno nella letteratura: perché preferibilmente rimossa? Perché comune a tutti e quindi passibile di banalità? O più semplicemente perché difficilmente letteraria in senso stretto? Pier Vittorio Tondelli la naja la vive al principio degli Ottanta, e non si lascia scappare l’occasione di raccontarla: Pao Pao esce nel 1982.
Il richiamo esotico del titolo, volutamente suggerito per poi essere disatteso, dà l’idea dello stile dell’intero romanzo: spiazzante, aneddotico, a tratti comico e linguisticamente pirotecnico. Tondelli attinge dal gergo giovanile, non lesinando bruschi cambi di ritmo, discorso indiretto libero e incidenti sintattici per creare un linguaggio che aderisce perfettamente allo spazio esistenziale giovanile che descrive: vite sfrenate, febbrili, raccontate come il «racconto trafelato di tutte le intensità che ci hanno travolto in quei dodici mesi». Se Pao Pao è il romanzo in cui si trova la naturale maturazione del percorso postmodernista intrapreso con Altri libertini (1980), probabilmente è anche il meno tondelliano in senso stretto: qui il punto di vista è infatti più voyeuristico che sentimentale, l’urgenza intrinseca della narrazione risparmia i particolari più intimi e scandalistici (ai quali comunque accenna in continuazione), trasformandosi in una confessione frenetica che bada più a una ricostruzione fattuale. Perché sarà anche vero che in caserma se sei furbo e malizioso ti puoi risparmiare il peggio, ma ogni aspetto, dagli odori al rumore, sembra votato a un annientamento a cui si deve in qualche modo provare a resistere. Come il freddo, ad esempio:
«Ma anche adesso la temperatura non scherza. Lavarsi è atroce, radersi addirittura proibitivo, quando sei sulla turca con le brache calate i muscoli si irrigidiscono e non c’è verso di farla, tutto un brivido che ti rattrappisce. Io, che sono sempre stato delicatissimo di intestino, mi sciolgo invece in scariche di dissenteria così violente da farmi lacrimare gli occhi. Sembra che tutto in me si perda nella cloaca, che fugga, che vada via per i tubi puzzolenti, e io vorrei che non tornasse più» (p. 44).
Perché la naja è «gioie e dolori e tanta noja» e lascia all’affetto il solo spazio della fame. Di carnalità, di vita “fuori”, di libertà bevuta e fumata ansiosamente fino all’ultimo secondo di licenza breve, che almeno nella prima parte della vita di caserma, a Orvieto, ha tratti salvifici:
«Mi riprendo così un po’ del mio self sbrodato e annacquato […] lo curo, lo secco, lo allargo e lo espando. […] Mi aprirò dunque e mi distenderò a questo panorama umbro, alla macchia che attacca le colline, ai boschi; mi allargherò in questi sguardi dall’alto che danno pace e senso finalmente a quel lungo e lieve respiro del cervello che conferma la tua presenza al mondo, che suggerisce qui, ora, finalmente ci sei» (p.55).
Ma che a Roma sembra non bastare più:
«Così mi stanco delle limonate dietro agli autobus e sui muriccioli e negli angoli dei palazzi […] Sono stanco, stramaledettamente stanco che ci traffichiamo per le strade e sono lì, negli anfratti, sulle panchine buie di Castel Sant’Angelo, nei vicoletti di Trastevere, davvero non ne posso più. Vorrei una casa, una topaia, un tetto per le nostre storie. […] non abbiamo uno straccio di posto per toglierci dalla strada e tutto quel po’ che combiniamo avviene sempre lì, in piedi, inginocchiati, sdraiati a terra, dietro a un cespuglio, sulla gradinata buia di una chiesa. Sono terribilmente avvilito di gettare tutto il mio affetto per le strade polverose e come unica tana la caserma, la camerata, la mia branda cigolante persa fra decine di altre brande uguali, anonime, uniformi, la vita del soldato» (p. 154).
Nell’affanno, nella rapidità del racconto e nelle lunghe enumerazioni il lettore finisce per provare la condizione che tocca ai protagonisti: si perdono i riferimenti. Sfuggono i fili del discorso, sbiadiscono i tratti di alcuni visi, è una babele di voci e di accenti. Il disorientamento di una generazione.
Lorenzo Gilardetti
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