Si potrebbe sostenere che parlare della poesia di Edith Bruck sia semplice per non dire inutile, in quanto la figura dell’autrice ci riports irrimediabilmente alla tragedia dell’Olocausto, una questione ormai arcinota, come se fosse quasi un riflesso automatico. Il che potrebbe risultare scontato e ampiamente prevedibile ben prima di leggere una sola pagina. Del resto tanto si è scritto e tanto si è detto tra romanzi, dipinti, musica, film, saggi. C’è davvero bisogno di indagare ulteriormente? La risposta è sì. La drammatica attualità presenta il conto e rende ancora più importanti queste espressioni, senza mai dimenticare che più del cosa nella scrittura conta il come. E proprio a partire dal come vorrei “adottare” una poesia di una scrittrice ucraina, Viktorija Amelina, dal titolo Non poesia per addentrarmi in una riflessione da dedicare a Tempi di Edith Bruck (La nave di Teseo, 2021).

Non scrivo poesia
Scrivo prosa
Ma la realtà della guerra
si mangia la punteggiatura
la coesione dell’intreccio
la coesione
si mangia
Come se sulla lingua
fosse caduta una granata
frammenti di lingua
sembrano poesia
ma non lo sono
E anche questa non lo è
Lei è a Charkiv
Fa la volontaria

(tratta da AA. VV. “Poeti d’Ucraina”, a cura di Alessandro Achilli e Yaryna Grusha Possamai)

Il testo appena presentato, scelto per puro riferimento alla realtà odierna, a dispetto del titolo va considerato come poesia anche se ci viene suggerito il contrario: una scrittura sviluppata in orizzontale non avrebbe la stessa forza evocativa e terrei in considerazione questi canoni estetici anche in riferimento alle liriche di Edith Bruck, autrice di versi aspri, disincantati e dall’incedere spezzettato. Non è il canto a ergersi, ma la frattura, non la celebrazione della vita, ma la forte preoccupazione che le grandi tragedie possano ripetersi. Non si può che partire dalla forma se davvero si intende conferire valore al messaggio poetico e civile di quest’opera e nella poeta ungherese naturalizzata italiana ritrovo quella stessa drammatica necessità di affidare un sentire a una struttura testuale di natura versificatoria al fine di rappresentare i momenti drammatici riproposti dalla memoria in maniera più efficace. Lo stesso Primo Levi del resto scelse i versi per imprimere solennità e scandire la denuncia del passaggio più celebre del proprio capolavoro, Se questo è un uomo.

Tempi non è semplicemente un libretto di poesie, ma una vera e propria dimora spirituale dove la concisione della schiettezza si fa al tempo stesso incedere profetico, qualità che caratterizza la poesia civile degna di nota. Pertanto ci troveremo sì la tematica dell’Olocausto, ma anche tante vicende che ruotano attorno alla vita della scrittrice, come il rapporto con i genitori, in particolare la madre, l’amato marito Nelo Risi, riflessioni sulla guerra, la pace, la vita, la morte, la sopravvivenza tra moniti e speranze politiche.

Di qualsiasi cosa scriva, Edith Bruck agisce di pancia, sebbene il tratto istintivo non ceda a sbrodolamenti privi di valore poetico o sciatterie versificatorie zeppe di slogan per fare presa sui lettori. Tempi, infatti, viene scandito nel ritmo sincopato del tragico e dell’irrimediabile, la frammentazione melodica è espressione di una ferita che non può rimarginarsi, eppure allo stesso modo è cifra di uno stile coeso e personale in cui convivono passioni, ansie, paure e in filigrana persino gioie. Certe memorie si sopportano per amore della vita, la testimonianza è desidero estremo di consegnare un lascito alle future generazioni.

Conviventi

Nessuno è più fedele
della memoria
non ti lascia mai
neanche da vecchi, anzi
cresce con te e memore
anche il corpo del male.
Conserva le tracce
del gelo, delle botte
con dolore migrante
dai ginocchi alla schiena, 
dal collo alle mani,
ai piedi nella neve con gli zoccoli.
Non hai tregua né fisica né morale,
per una volta puoi contare
sulla fedeltà assoluta
come su nessuno.
Non ti dimentica
neanche nel sogno.

La memoria è il cardine dell’opera di Edith Bruck e in Tempi sarebbe impossibile immaginare il fluire delle parole senza volontà testimoniale. L’autrice è parte integrante di quella coscienza di cui spesso ha parlato Liliana Segre, la quale sostiene che la propria rappresenti l’ultima generazione a cui sarà dato il compito di trasmettere gli orrori dell’Olocausto. Successivamente toccherà ai giovani raccogliere il testimone e combattere affinché la tragedia non si ripeta. 

In questo libro affiora già la disillusione, Edith Bruck individua e denuncia l’abbassamento della soglia di guardia, ma l’ardore delle parole non intende cedere il passo allo sconforto. L’autrice sa di essere una voce isolata eppure potente: qui entra il gioco il compito della scrittura, farsi ponte tra passato e futuro, tra vivi e morti, tra sconfitte e speranze.

Interessante potrebbe essere anche focalizzarsi su un dialogo immaginato con l’amico Primo Levi, notoriamente pessimista circa la capacità degli uomini di allontanare i fantasmi di Auschwitz e di comprendere in profondità tali fenomeni. Edith Bruck, facendo propria la riflessione di Primo Levi, rivendica il valore della sopravvivenza.

Una passeggiata con Primo Levi

Per te così piemontese
per i tuoi passi quasi da clandestino
per i tuoi occhi abbagliati da tanta luce
come del prigioniero appena liberato
Roma era una città troppo assolata.
“C’è un’aria di vacanza, di festa, di mercato,”
mi dicevi con la bocca stretta incredula
gettando lo sguardo scrutatore e furtivo
sulle vetrine sgargianti che ti proibivi,
perché Primo?
La normalità desiderata
non ci è più possibile
dentro casa, in strada, con gli amici,
le mogli, i mariti, gli amanti —
un’esistenza è stata marchiata
che può finire anche in fondo alle scale
come la tua, quando hai ceduto
alla strizzata d’occhio del vecchio maligno
impoverendo noi e i tuoi tanti lettori,
perché Primo?
Manca la tua figura ammonitrice,
necessaria come l’acqua all’assetato,
la preghiera per chi crede,
la luce per chi non vede.
Il nostro dovere è
vivere e mai morire!
Perché Primo?

Non c’è nulla di nuovo che questo libro possa offrire, se non la testimonianza di una superstite a una vita sofferta e travagliata. Si potrebbe dire, a chi storce il naso, che questo è il libro che ci meritiamo per la nostra incapacità di trarre insegnamenti dalla storia. Non abbiamo lavorato sui nostri errori, non ci siano liberati dai nazionalismi tossici che utilizzano le proprie narrative per volontà di sopraffazione. 

È pertanto opportuno concludere con una poesia che si interroga sulla pace, tema ricorrente in questi mesi all’interno del dibattito pubblico. Questa lirica è stata scritta prima del ritorno della guerra in Europa, e trovo interessare rilevare come il monito di Edith Bruck sia già stato terribilmente trascurato, che i pericoli di cui siamo stati avvertiti si stanno materializzando molto velocemente. Sappiano i lettori che questo libro di poesie, da memoria si sta trasformando in attualità. Stringiamoci tutti intorno alle inquietudini di Edith Bruck, ora o mai più!

Pace

Le parole più pronunciate invano
come quelle di Dio, amore,
fratellanza, uguaglianza,
parole vuote, consumate,
strausate senza pudore
nel nome della pace,
nel nome di Dio
si guerriglia
con la cintura esplosiva.
Nell’inciviltà con pietre e bastoni.
Nella civiltà tecnologica
basta premere un bottone
dall’alto di un aereo, 
altro che corpo a corpo,
vedendo il morto in faccia!
“L’occhio non vede
il cuore non duole” (si dice),
basta un dito per scatenare
la pioggia della morte!

Federico Preziosi