Lincoln nel Bardo di George Saunders è un libro straordinario, nel senso etimologico del termine: completamente e innegabilmente fuori dall’ordinario, per struttura, lessico, trama, contenuti.

Romanzo intenso, potente, ironico, ma allo stesso tempo commovente, intriso di una profonda tristezza.

Partendo da un piccolo evento storico (ma disperatamente dirompente nella vita di un uomo), ossia la morte prematura del figlioletto di Abramo Lincoln e la conseguente disperazione di quest’ultimo, che lo porta a recarsi nella cripta in cui è sepolto il bambino e ad aprirne la tomba per abbracciarlo, Saunders crea un mondo al di là del mondo, sospeso tra materia e spirito (il Bardo del titolo, esplicito riferimento al Libro tibetano dei morti), un limbo in cui l’anima resta intrappolata, ancora legata alla propria esistenza precedente, immersa nel mondo materiale senza poter interagire con esso, sospesa tra ricordi confusi e una percezione assai labile della “vita” futura, quasi inconsapevole della propria condizione di morte.

Oltre che del citato libro dei morti, l’autore è sicuramente debitore nei confronti di Dante e di Edgar Lee Masters, per la creazione di questo microcosmo popolato da personaggi tragici e grotteschi (degni del conte Ugolino), trasfigurati, in una sorta di legge del contrappasso, da colpe e paure della loro vita terrena, costretti a ripetere ossessivamente il racconto della propria storia, o meglio, della propria fine, per non dimenticare se stessi, per non perdere il legame con questo mondo, solo in parte consapevoli dello scorrere del tempo (un tempo che non gli appartiene più), assurdamente convinti di poter un giorno tornare.

Saunders ha la capacità di creare empatia, rendendo il lettore profondamente partecipe dei drammi che racconta, primo tra tutti quello di Lincoln, per il quale la tragedia dell’uomo, del padre, è moltiplicata da quella del Presidente, del capo, che più soffre come uomo, più sente la propria anima sprofondare sotto il peso della responsabilità nei riguardi di un’intera Nazione, di milioni di genitori che hanno perso o potranno perdere i propri figli, in una guerra fratricida da lui stesso voluta e portata avanti, ma non ancora vinta. Un dramma intimo e privatissimo, dunque, ma un dolore universale, assolutamente comprensibile, che nel cuore dilaniato di Lincoln si scontra e si confonde con la responsabilità dell’uomo di potere nei confronti del dramma collettivo della guerra che, paradossalmente, è molto più individuale, meno condivisibile, meno spiegabile. Un fardello da sopportare da solo.

Attraverso i dialoghi e le confessioni dei pittoreschi personaggi di questa Spoon River in prosa, penetriamo nelle storie di uomini e donne provenienti da luoghi, contesti e addirittura epoche diversi e, allo stesso tempo, ci facciamo strada tra i grovigli di questo purgatorio, ne sveliamo i meccanismi e i precari equilibri che lo governano. A far crollare il castello di illusioni su cui si fonda sarà l’arrivo di un bambino precocemente strappato all’esistenza (abstulit atra dies et funere mersit acerbo, direbbe Virgilio), che prima creerà un punto di contatto col mondo terreno, come non si era mai visto nel Bardo, attraverso l’amore del padre e la loro reciproca incapacità di separarsi, infine svelerà il bluff al quale hanno creduto, o voluto credere, quasi tutti. Durante la sua permanenza nel Bardo, è commovente il tentativo di difesa messo in atto dai principali personaggi che popolano quel mondo, nei riguardi del fanciullo, per liberarlo dalle catene che lo imbrigliano in quel luogo e spingerlo verso una nuova luce.

A fare da contorno agli affari dei morti, ci sono spettatori inconsapevoli (il custode del cimitero, la ragazza inferma della casa di fronte) con i loro racconti, che rendono più vivida la tragicità dei luoghi e degli eventi, mentre il controcanto è affidato a spezzoni di cronache dell’epoca e biografie, che si innestano perfettamente nei dialoghi delle anime sospese, come a dare risposte concrete alle loro elucubrazioni. L’essenza del libro è sicuramente nell’incapacità di chi resta di lasciare andare i propri cari e di chi va di staccarsi dagli affetti di questo mondo e, soprattutto, di accettare i propri fallimenti, di acquisire coscienza del fatto che il passato non si possa cambiare, che quel che è stato resterà tale e quel che non è stato non potrà mai essere. E solo il raggiungimento da parte degli spiriti bloccati nel Bardo della consapevolezza che non potranno mai più essere permetterà loro di andare incontro al fenomeno, spaventoso e al tempo stesso affascinante, di quella che chiamano materialuceradiante, una sorta di trasfigurazione e trasmigrazione delle anime in un nuovo, definito e definitivo, luogo, una vampata in cui la forma comincia a “sfarfallare tra le varie vite che aveva vissuto nel posto di prima…e poi tra le varie forme future che, ahimè, non era mai riuscita a incarnare”.

Fabio Sarno

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