“I believe that children’s souls are the inheritors of historical memory from previous generations. It’s just that as they grow older and experience the everyday world that memory sinks lower and lower. I feel I need to make a film that reaches down to that level. If I could do that I would die happy.”

(Hayao Miyazaki)

Quello trascorso è stato l’anno della paura di una paura quasi indicibile, che abbiamo cercato di buttarci alle spalle prima di scegliere di dimenticarcene. Della paura e del modo di evitarla, di non guardarla troppo in faccia. Ognuno di noi ha trovato un suo di modo. Per me è stato anche attraverso i film di animazione di cui vi parlerò – molti prodotti dallo studio Ghibli, altri no, molti firmati da Hayao Miyazaki -, che ho visto e rivisto assieme ai miei tre ragazzi quando non si poteva uscire, loro non potevano andare a scuola e l’inverno era più freddo e più nero.

Ho visto la più piccola allargare il sorriso assieme a Mei (Il mio vicino Totoro, Tonari no Totoro, scritto e diretto da Miyazaki), la più grande seguire Howl fino al suo antro più nascosto (Il castello errante di Howl, Hauro no ugoko shiro, diretto sempre da Miyazaki), e il maggiore portarmi nella fantascienza di Metropolis (tratto da un manga di Osamu Tezuka, il padre del manga moderno) o tra le rovine di La tomba delle lucciole (Horatu no haka, di Isao Takahata, tratto dal racconto autobiografico di Akiyuki Nosaka). Per me è stata un’occasione di vedere la paura, soprattutto lo sforzo che proveniva dalla necessità di evitarla, e riuscire a svuotarla grazie alla commozione o a riempirla di altre emozioni più benevole. Non mi soffermerò sul discorso del se questi film d’animazione sono destinati ad una “fetta” di pubblico, bambini e ragazzi. Non ho mai creduto alla distinzione dei generi e adoro le anomalie. Racconterò solo dei frammenti, delle emozioni e suggestioni che hanno suscitato. Perché quell’istante è stato il posto in cui ci siamo trovati e riscaldati, adulti e ragazzini, senza troppe distinzioni. Loro sono arrivati lì immedesimandosi, correndo assieme a Mei, tuffandosi appresso ai suoi slanci e stupori, o sollevandosi nei voli di Howl. Io vedevo i simboli, l’albero di canfora con la sua chioma possente, l’ombrello e i suoi raggi, la casa, le tracce minime e delicate della storia non scritta, le citazioni e riscritture eleganti di tante fiabe classiche, da Peter Pan, passando per Alice nel paese delle meraviglie e il Mago di Oz. Avevo letto che la madre di Miyazaki aveva sofferto di tubercolosi spinale, che era stata tanti anni, praticamente l’intera infanzia dell’illustratore, lontano, ricoverata in una clinica. E allora vedevo come l’infanzia si trasforma a volte in una specie di sala d’attesa, il luogo ripetitivo del trauma, ma vedevo anche la meravigliosa capacità di toccarlo quel trauma, di metterlo in scena ossessivamente e trasformarlo. Vedevo l’Europa in una idea romantica e il Giappone con i suoi oggetti tradizionali che hanno il suono del legno e della ceramica, i riti, quello del bagno (furoba), l’esposizione a sud delle case, e la luce in un fascio sul bosco. Vedevo le ferite lasciate dalla guerra, tutti i suoi orfani e tutti i suoi bambini costretti a fare da madre e da padre. Ma soprattutto mi lasciavo portare beneficamente lì nel luogo delle emozioni, del loro passaggio. “Nel girotondo di un gioco in cui ci si smarrisce e ci si ritrova, scoprendo improvvisamente di essere diventati grandi”, in una delle meravigliose intuizioni di Valeria Arnaldi (che ha dedicato bellissime monografie a Miyazaki).

Lì, tra noi colava qualcosa tra malinconia e allegria, e la fantasia ritrovava la sua dimensione: il fantastico non è un mondo piatto di maghi, dinosauri e sacchetti Ikea in cui ordiniamo tutte le nostre cose assieme alle nostre emozioni, pronti per partire, ma un’esperienza ambivalente, mista, una corsa a perdifiato ma anche un rifugio, che dà forma al sogno, ai timori e alle angosce. I frammenti che seguono sono tenuti insieme dal caso. Da una folata di vento, come quella che percorre i film di Miyazaki, quest’uomo pacifico, di ottant’anni con i suoi vestiti sobri e il grembiule bianco del mestiere. Il vento, come scrive Valeria Arnaldi, è un elemento chiave della poetica dell’illustratore. Quel vento che arriva dall’infanzia, il vento di ogni passaggio, quello che quando si fa bufera e fa scricchiolare le travi e muove la casa non spaventa ma culla, il mio vento che periodicamente ma senza preavviso sferzava contro la casa, mi faceva rannicchiare sotto le coperte e dormire un sonno che non ho più dormito. Il vento che sospinge Sophie, la protagonista de Il Castello errante di Howl, verso le lande e verso la favola, la folata sonora dell’ocarina di Totoro. Il vento sostituito dal rombo artificiale e spaventoso dei motori degli aerei da guerra, o completamente assente nel deserto tecnologico di Metropolis.

Arrietty (Karigurashi no Arietty) prodotto e sceneggiato da Miyazaki, è una favola della sproporzione perché il rapporto con l’altro è anche un salto, un confronto tra proporzioni, dove per fortuna non vale la regola del più grande vince. Il piccolo stupisce il grande per la sua piccolezza; il grande stupisce il piccolo per la sua enormità. Lo stupore è ciò che ci lega donna, uomo, io, l’altro. Un esserino minuto, lei, Arrietty, piccolo come un insetto in via d’estinzione, che non si lascia schiacciare però. Lui, Sho, un ragazzo malato, uno dei tanti ragazzi malati di Miyazaki, grande, un gigante rispetto a lei, ma forse senza futuro. Lui, il predatore, perde fiato e quasi soffoca per una piccola corsa che è lunga come una maratona; lei, predata ha l’agilità e il coraggio di un leone. Una favola d’amore quello che batte di curiosità, meraviglia e scambio. Sul finire del film, Arrietty offre a Sho una pinza, lui una zolletta di zucchero. Oggetti da niente, rubati, “chapardés”, “presi in prestito” appunto, che nel passaggio e nello scambio diventano un’altra cosa, meravigliosa. In questo scambio passa l’amore e gli oggetti perdono la consistenza di beni e si fanno significati, in un mondo che a volte è una miniatura stretta all’altezza di una coccinella, altre una distesa lunga e sconosciuta come un fiume che porta chissà dove. Dove la casa -quella in cui vivono Arietty e i suoi genitori- è un’astrazione. Una linda casa delle bambole incantata e disabitata, come quella accanto al letto di Sho. L’altra quella vera, quella in cui abitiamo per davvero, è un sacco che ci portiamo sulle spalle.

Tima è la protagonista di Metropolis non il film di Fritz Lang degli anni venti ma di un anime di culto di molti anni dopo. Il regista è Rintaro e la storia si basa e al tempo stesso discosta da quella di un manga del 1949 di Tetsuka, “dio del manga” sulle cui illustrazioni Miyazaki si è formato da ragazzo. Tima è un androide creato da Duke Red, il potente di turno, un esaltato, per realizzare il suo disegno oscuro di dominare il mondo. Eppure Tima non è un androide, nel senso che nessun androide della letteratura fantascientifica e non solo, è un androide. In fondo gli androidi, almeno quelli come Tima e le altre intelligenze artificiali che nella finzione hanno soppiantato il genere umano, si sono sostituiti all’uomo relegandolo in zone oscure della città come fuorilegge, o si sono così perfettamente mischiati con gli uomini, almeno nelle loro forme più perfette, da essere difficile distinguerli da loro, restano una finzione. Sono al massimo un paradigma, una metafora -a volte appena più catastrofistica, e teatrale della realtà- di quanto la tecnologia o forse sempre solo la stessa cosa, ossia la fame di potere e di controllo, tutta umana, pieghi e corrompa i rapporti interpersonali.

Tima non è un androide. Perché se Tima fosse un androide, come il giocattolo Klara del romanzo Klara and the sun di Ishiguro, sarebbe così scontato parlare della poetica contraddizione tra l’essere una macchina che sente, e sente molto di più di tutta l’umanità che la circonda. O soffermarsi su quanto sia struggente vedere una macchina che si muove ignara dentro i propri limiti di macchina, ed altri cliché. Tima nonostante il suo rivestimento si logori sul quel corpo bianco -in cui luccicano quei soliti occhioni, caratteristici del genere manga, che sono il luogo delle emozioni e come tale devono essere ingranditi- e si strappi come pelle mostrando uno scheletro di connessioni e metalli, non è un androide. Così come Frankenstein non era un mostro. Tima è un’altra versione di quell’eterno Frankenstein che Mary Shelly immaginò a soli vent’anni. L’intreccio di due fantasie: creare una persona senza passare per la riproduzione e produrre con la sola tecnologia una creatura indistinguibile da quella umana, come scrivono Chiara Valerio e Alessandro Giammei a proposito di Eva futura (di Villiers de L’Isle-Adam, Marsilio editore) e di altri androidi (“Sono gli amori incompleti che ci distinguono dai robot” su Domani). L’uomo, qui in Metropolis uno scienziato ricercato perché traffica con organi umani per creare i suoi androidi, in una specie di partenogenesi (quel segreto sogno di onnipotenza) crea una meravigliosa macchina di distruzione. Ma la mostruosità sta nel creatore, non nel povero oggetto della creazione. Ed anche qui, come nel romanzo di Mary Shelly, il destino prende il sopravvento sui sentimenti della creatura e la distrugge.

Tima è l’unica donna in un mondo di uomini: i ribelli che vivono nella città di sotto, nelle fogne dove preparano la rivoluzione, e gli investigatori, Kenichi e suo zio, che assieme al detective androide scalano questa metropoli verticale, dove la gerarchia si è fatta elemento architettonico, con i grattaceli con cui i potenti come Duke Red e dittatori si prendono il diritto di toccare il cielo e la luce del sole. Metropolis è un patriarcato centuplicato in cui Tima e il suo amico Kenichi possono solo scappare.

Scappata al complotto, nata prematura, perché lo scienziato viene ammazzato prima che possa perfezionare la sua creatura, Tima è ognuno di noi, che ci chiediamo chi siamo, e più ci sentiamo costretti in panni ed identità che non sono nostre, che non ci appartengono veramente, più ce lo chiediamo. È la figlia che Duke Red ha perso, che rivuole indietro a tutti i costi, sul trono che ha creato per lei nello Ziguratt, l’edificio più maestoso, per avviare la sua macchina distruttiva.

Tima è la luce. La luce quando penetra tra le vette di questa città futurista e soffocata, dove anche il cielo è macchiato e saturo, è un miracolo, lo è ancora di più. Tima la osserva come se avesse quel fascio di luce tra le mani, come un oggetto che si guarda attentamente, e per un momento quello sia tutto, tutto il mondo. E così, allo stesso modo, ogni sguardo di Tima, ogni gesto, una lacrima di ruggine che scivola sulla gota, nel tempo rallentato e lieve degli scambi innocenti con il suo salvatore Kenichi, e le sue parole ossessive Who I Am ci sono offerte per guardare lei e le sue parole per davvero. Come se tutto il resto non esista. E non importa cosa voglia significare Tima, se sia lei la vera eroina, se sia solo quello che tocca ad una ragazzina androide in quella società disumanizzata, salvata da uno e dannata dagli altri.

Lo Ziguratt, il sogno grandiloquente di Duke Red, crolla sulle note di I cant stop loving you, in una esplosione che mi riporta a quella di Deserto rosso di Antonioni. Tima scivola, scivola, in una caduta libera, lungo la città verticale. In questa caduta Kenichi cerca di salvare l’essere umano nel suo suicidio, non riesco a smettere di amarti dicono le sue mani, mentre la afferra e la perde, e la riacciuffa e la perde di nuovo. Solo allora, alla fine, quando non è più niente, solo un pezzo tra le macerie, una connessione, un meccanismo rotto, solo allora è una macchina che con l’aiuto dei robot Kenichi raccoglie e porta via.

Sophie è la protagonista de Il castello errante di Howl, scritto e diretto da Miyazaki. Cuce cappelli fuori moda in un angolo sul davanzale che dà sulla finestra, che dà sulla vita chiassosa e sul cielo dove volano gli aerei, quelli che il padre di Miyazaki fabbricava, e che si trasformarono in macchine da guerra sul cielo di Pearl Harbur. Poi arriva la vita, e la rapisce via in un volo seducente tra le braccia di Howl, un mago bello e capriccioso. E una volta che ti mischi con la vita non puoi più sottrarti. Così la strega delle lande, per gelosia, la trasforma in quello che in fondo la ragazza è sempre stata nell’animo: una vecchia, molto vecchia. Una di quelle incredibili vecchine (“nonnina”) ingobbite ma ancora piene di energia che popolano i racconti animati di Miyazaki.

Il castello è il luogo proibito di Howl, il mago bellissimo di cui dicevo. È ovunque e in nessun luogo, è una porta che si apre sui sogni e sugli incubi, sui luoghi della memoria, su molteplici città dove rifugiarsi, sui rifugi che finiscono per coincidere con quelli di Sophie. La storia si schiude come un cuore dentro di un cuore, una bambola dentro una bambola, una scatola nella scatola, che scarti e poi scarti ancora. Al centro c’è una scena madre, quella che custodiamo tutti noi. Per Howl e Sofia è una notte d’estate in cui Howl ha chiesto una cosa impossibile: possedere un astro, Clacifer, e in cambio della luce ha venduto l’anima al diavolo. Quando Sofie riesce ad entrare anche lì, nell’ultima casa, nel posto cupo o splendente dove scivolano i rancori e i sogni, l’incantesimo della strega delle Lande si spezza, e i due si incontrano davvero, il castello crolla su se stesso, e il luogo proibito finalmente è quello che doveva essere: ovvero il luogo dove disfarsi di qualcosa e quindi da disfare.

Mentre il padre delle due sorelline Satsuki e Mei, le due eroine di Il mio vicino Totoro, è occupato a seguire il trasloco nella nuova casa in cui si sono appena trasferiti, Mei e Satsuki scoprono i nerini del buio, i corri fuliggine, che abitano le case che un tempo sono state abitate e poi sono rimaste disabitate. Mentre in una notte d’estate e di lucciole, il padre, professore universitario, è occupato alla sua scrivania tra torri di libri, in cui nasconde anche la sua angoscia, Satsuki e Mei escono in giardino e si lanciano in una danza magica e le piante germogliano e più loro sono felici e più danzano e più il tamburo batte e il cuore batte e le piante si allungano in un albero colossale. Mentre il padre è occupato al solito tavolo, sotto la solita torre di libri e Satsuki, la maggiore, è a scuola, Mei si allontana, si inoltra nel boschetto e scivolando per un sentiero nascosto atterra sulla pancia del totoro, un troll, un spirito della natura.

Totoro è uno dei tanti spiriti di una cultura animista in cui le presenze incorporee, sacre o profane, sono molto corporee, nel senso che occupano un posto reale, uno spazio accanto a noi, riservato a loro. Non sono ricacciate indietro, nelle tombe e nei cieli. Totoro è l’orso di peluche che tutti noi da bambini avremmo voluto che si animasse mentre lo stringevamo e che ci proteggesse ancora di più. Ma Totoro è soprattutto la natura come luogo privilegiato dell’infanzia. Il posto dove dovremo crescere tutti noi. Quel posto che poi è diventato la strada per essere sostituito dalla casa, la stessa da cui per scelte economiche e politiche catastrofiche, non per un virus nemico, siamo rimasti chiusi a soffocare. Satsuki e Mei mangiano i frutti del bosco, le pannocchie del campo, giocano con la terra e con l’acqua. Aspettano sotto la pioggia purificatrice che il padre rientri dalla città con la corriera. Aspettano in una notte immensa che non fa troppa paura. Rischiano di perdersi, si smarriscono, corrono per i campi a perdifiato per ritrovarsi. La natura aperta è lo spazio necessario per sfogare le loro emozioni represse, che devono gridare ad alta voce, devono farsi sentire, scoppiare nelle bocche, far volare i piedi. In quello spazio certo i bambini potrebbero perdersi e loro Satsuki e Mei, essersi perse per davvero. La tragedia è sempre sfiorata. È lì, quando gli uomini impegnati nelle ricerche di Mei, dragano l’acqua della risaia e trovano una scarpina che per fortuna non è di Mei. Ma è stata di qualcun altro che forse non è stato ritrovato. Il rischio fa parte della vita che può essere sempre ad un passo dalla tragedia.

Ma Miyazaki mostra soprattutto come il gioco sia tutto negli occhi delle due sorelle, nella meraviglia che prende la forma enorme e calda di questo animale che con il fiato muove i venti e le bufere ma il cui ruggito è un suono leggero e divertente. Quest’animale che protegge distrattamente Mei e Satsuki nel bosco, nel luogo dell’infanzia e dell’immaginazione.

Satsuki e Mei non sono abbandonate, non sono lasciate a loro stesse. Il papà è occupato sotto la torre di libri ma quando le guarda gli rivolge un sorriso immenso, anche se in quel sorriso c’è qualcosa di forzato. Solletica la loro curiosità, anche se parlare di spiriti vuol dire prepararle alla morte di una persona cara. Calma i loro affanni, non importa se con delle bugie, quelle necessarie degli adulti. Le carica in spalla e le riporta a casa. La madre è lontana in una clinica e malata di tubercolosi, come la madre dello stesso regista, ma il suo desiderio di ritornare a casa dalle bambine, soprattutto di alleviare l’angoscia di Satsuki è potentissimo e si allunga ogni giorno fino a quella casa in cui si sono trasferiti proprio per essere vicini alla clinica e in cui sperano che la madre possa finalmente tornare per la sua convalescenza. La raggiunge con le sue vibrazioni, portate dal vento e dal suono dell’ocarina di Totoro. Totoro si materializza qui in mezzo. Tra un padre vicino, nonostante le assenze, e una madre lontana ma presente. Lo sguardo del padre e il desiderio della madre si stringono nelle maglie della rete di salvataggio che è il vero luogo dove vivono Satsuki e Mei. Dove tutto è possibile, vedere un totoro o un “toroto” in una ennesima storpiatura dopo quella di Mei, o uno stregatto che sotto le mani di Miyazaki si trasforma in un busgatto sul quale le bambine non hanno paura di viaggiare sole. Ma anche dove la vita e la felicità come per tutti noi sono sempre a rischio.

Cos’è il ricordo del tempo di prima se non un nocciolo stretto, una scatola di latta dove una volta c’erano delle caramelle ed ora è solo una tomba di lucciole? In quella scatola è custodita la vita semplice e felice dei due fratelli protagonisti di Una tomba per le lucciole, una storia struggente. Una vita che va incenerendosi sotto le bombe e i fuochi di quell’assurda guerra che racconta. Lì dentro, nella scatola prima c’erano loro quattro, una madre, un padre, un fratello ed una sorellina. Poi solo tre persone strette come un nodo, una madre, il fratello e la sorellina. Poi le caramella per calmare la disperazione della sorellina perché la madre non c’è più. Le caramelle finiscono e anche il cibo. E allora resta solo cenere che vola via come una esalazione nell’atrio di una stazione qualunque. E una foto di quel giugno del 1945, quella da cui il nasce la storia. La foto di un ragazzino sugli attenti, con un fagotto inerme sulle spalle, che si morde le labbra per ingoiare le lacrime.

Ecco forse la vita: una scatola di latta sempre piena di qualcosa anche quando sembra vuota, una parola-buco dove convergono le memorie. A volte il ricordo è feroce, altre invece tenero.

Silvia Acierno