“J’imagine qu’un sage, tels les vieux taoïstes, pourrait faire plusieurs fois le tour du monde à l’intérieur de sa maison, sans jamais sortir de sa cellule” (M. Yourcenar)

Due Yourcenar: una monumentale, la prima donna nominata alla Académie Française, sobria, controllata, inossidabile, aristocratica, irraggiungibile. Poi l’altra, enigmatica, debole, tenera, vanitosa, anche patetica. In una parola, folle. Quella che sotto l’immagine granitica respirerebbe assieme alla sua casa, il cottage di legno sulla punta del vento, dell’oceano e dei primi raggi di sole, in un’isola del Maine, che avrebbe potuto essere anche una qualsiasi isola greca, sulla frontiera tra l’universo e il mondo umano, scrive in Les Yeux ouverts. L’isola del Maine è Mont Desert, che fa eco a quel Mont Noir sulla frontiera belga-francese, nella campagna vicino Lille, dove si trovava lo Château della famiglia paterna.

Ritirata, appartata quasi dal mondo, immersa nel silenzio, le grida degli uccelli notturni, la sirena di una piccola imbarcazione nella nebbia di notte. C’è un disegno a matita, Home Studies in Nature, un autoritratto di Mary Treat, una botanica (ce n’erano molte in epoca vittoriana, contemporanee di Darwin, ma assolutamente sconosciute): una donna su una sedia in mezzo a un cerchio di siepi, che è come un cerchio di fuoco. Aveva costruito quel perimetro nel suo giardino domestico, my home space, all’interno un acero, due vasche per gli uccelli, e tante ore seduta con un cappello di paglia ad osservare le formiche che solcavano l’acero, i ragni e le vespe, ma soprattutto intenta a formulare uno sguardo diverso sul mondo, fatto di pratica, di assi di risonanza con quella porzione di natura. Così immagino Yourcenar nella sua pratica con la scrittura e con il mondo. Racconterà che lei e Grace Frick, la compagna di una vita, avevano visitato l’isola d’estate, invitate da un amico, quando nell’isola ci si spostava ancora a cavallo. Assolutamente per caso. Avevano deciso di lasciare New York e si erano stabilite laggiù in una specie di esilio volontario, nella Petite Plaisance, come avevano battezzato la loro casa. La scrittrice abita qui, opera di Sandra Petrignani, mi permette di entrare in quella casa, nido, cella, in cui l’amore che col tempo è diventato amore-pazienza, quel profondo sentimento di tenerezza tra due persone che condividono azzardi e vicissitudini, si è fatto comunque, architettonicamente, centro della vita senza doverne costituire continuamente il centro però, in quella corda così yourcenariana, lontano da sommità e abissi eppure vibrante e sospesa.

Petrignani sa decodificare e far cadere lo sguardo solo sui dettagli che importano: così il piccolo specchio all’ingresso ci dice l’altezza della scrittrice, esatta, un metro e sessantacinque; il Buddha tailandese nel salotto è un regalo di Jerry, l’ultimo compagno; il coltello tibetano per uccidere l’ego, che sopravvive comunque; le coperte di lana da mettere sulle ginocchia perché la stufe non sono sempre accese, a Yourcenar non piace comprare la legna ma preferisce raccogliere i rami caduti nelle sue passeggiate, le finestre che bisogna lasciare aperte per liberare gli spiriti; la pietra di malachite che era cascata dal tavolino dell’ospedale e si era rotta in due metà, annunciando la fine.

“Petite Plaisance racconta una storia diversa”, scrive Petrignani: “è una casa tenera, avvolgente, femminile”. C’è qualcosa che non torna: “una forma di eccesso nelle due direzioni”. Troppo patetica Yourcenar quando è infantile come in quel Valentine, uno di quei biglietti che si scambiava puntualmente con la sua compagna Grace Frick, con i due cuori di colore diverso e la scritta “Il cuore marrone di Zoé e il cuore rosso di Marguerite”. O troppo fredda e distaccata.

Ancora giovane Yourcenar andò a Londra per intervistare Virginia Woolf di cui stava traducendo The Waves. Yourcenar ha trentaquattro anni, Woolf cinquanta e passa. È un incontro che ha un peso diverso per ognuna di loro: importante per Yourcenar, trascurabile per Woolf, che sembra snobbare la madame o mademoiselle francese di cui non ricorda bene il nome, incuriosita e irritata, poche annotazioni dell’incontro nel diario. Yourcenar, splendente nel suo abito nero con le foglioline dorate. Dopo essersi scrutate, si capiscono al volo e con poche linee fanno ognuna il ritratto dell’altra. Quando comincia a scrivere quel piccolo saggio su Virginia Woolf, Une femme étincelante et timide, un astro distante, glaciale, che per brillare si consuma, Yourcenar ha capito che deve cominciare dal padre della scrittrice inglese, da Leslie Stephen, dalla simbolica edipica e dalle pareti domestiche, da quella culla su cui si sono affacciate tutte le fate della letteratura inglese. Woolf vede le foglioline dorate e il gusto, vede il rossetto di una donna portata all’amore e la vitalità dell’intelletto… vede la Yourcenar che si è riempita di passioni e di rapporti obliqui fino all’orlo di sé stessa ma sceglierà l’autodisciplina e la libertà interiore.

La Yourcenar degli anni turbolenti dell’anteguerra, dell’aristocrazia anche antisemita, dei salotti lesbico-chic, dei fuochi e delle seduzioni, di Alexis (il suo primo romanzo, lunga lettera con cui Alexis confessa all’amata moglie la propria omosessualità), dell’amore crudele e non corrisposto per André Fraigneau, suo editore ed omosessuale. Dell’hotel Wagram, elegante, decadente, i bicchieri di cognac e le mille provocazioni per conquistare Fraigneau. Quella Yourcenar da cui in qualche modo Marguerite si era protetta, lasciandosi portare lontano da Grace Frick, lontano in quel punto sull’oceano che è la casa bianca dagli abbaini, quel paradiso che deve pure esserci da qualche parte. Per una decina d’anni non aveva più “esercitato” il mestiere di scrittrice, aveva insegnato anche se l’insegnamento non le piaceva e tradotto poesie e negro spirituals, si era occupata d’altro, insomma. Fino a quando erano arrivati quei tre bauli dall’Europa pieni di cose di cui non si ha bisogno, come quel vecchio broullion delle Memorie di Adriano, completamente dimenticato.

Due donne: quella pubblica che depista, che inganna, che porta a farci vedere solo “una grande vocazione di moralista” (scrive Nadia Fusini). Eppure, attraverso le sue opere Yourcenar non ci “solleva nelle altitudini”, come pure è stato scritto, ma ci fa scendere qui in terra dove un grande imperatore è anzitutto un uomo. Che poi è lo stesso di credere che ogni vita è divina, “la vie de chacun étant au fond divine, mais très peu de gens le savent”.  E la Yourcenar intima, che pochi conoscono, su cui lo scrittore Cristophe Bigot, ritorna, credendo di svelarla (Un autre m’attend ailleurs, appena uscito per Éditions de la Martinière). Eppure, Yourcenar è in tutti i romanzi che ha scritto, anche nelle Memorie di Adriano, cominciate a vent’anni, quando visitava la villa di Tivoli e rifaceva i passi di Adriano nel Pantheon, e già aveva deciso che sarebbe stata scrittrice. È lì come una vena di piombo che fluisce. Lo spirito che sconfina sempre nella carne.

Due figure contraddittorie o solo una labirintica? La Y di quello pseudonimo scelto nella complicità di un gioco assieme al padre, acronimo quasi perfetto del cognome paterno, Crayencour, simboleggia del resto un albero con le braccia aperte, e anche un crocevia. Cosa c’è all’altro capo del labirinto, in fondo al pozzo? Sicuramente un buco, una soglia disabitata, non solo perché la madre morì per una infezione grave dopo averla partorita, ma ancora di più perché decenni dopo, in quella lunga intervista concessa a Matthieu Galey, raccolta in Les yeux ouverts, alla domanda di Galey sul peso dell’assenza della figura materna, Yourcenar risponde di getto: “pas le moindre du monde”. Una risposta secca o glaciale, sincera, eppure troppo sbrigativa. Qualcosa di “gelido” sta lì, di compatto, difficile sciogliere. Lei ci ha provato attraverso la scrittura, attraverso il ciclo autobiografico mai terminato, Le Labyranthe du monde. Ma una soglia disabitata, oltre al dolore, è anche uno spazio di apparizioni, quella di una specie di madre sognata, accarezzata, fantasticata (‘Qu’eût-elle fait?’ Tout cela appartient presque à un côté magique – cette transmission *) – dont on ne peut guère rien dire). Fernande Cartier de Marchienne, così si chiamava la madre di Marguerite, questa donna che non si nomina quasi mai, come se non fosse mai stata sulla scena, aveva un’amica Jeanne de Vietinghoff, una grande amica di quelle con cui ti scambi promesse impegnative. Si erano promesse che, se fosse successo qualcosa di grave ad una di loro, l’altra si sarebbe occupata dei figli che sarebbero venuti. Undici giorni dopo la nascita di Marguerite, Fernande muore, e quella promessa diventa un triste presagio. Jeanne sarebbe stata accanto a Marguerite come una madrina, il padre di Marguerite si sarebbe innamorato di lei, e Marguerite l’avrebbe desiderata come madre, presa a modello, Jeanne scriveva, è stata autrice di saggi e romanzi, una specie di ideale con cui identificarsi, una leggenda suggellata dall’attrazione del padre per Jeanne. Votre mère, dont mon père, qui avait pour elle une admiration très grande, me parlait souvent, est devenue pour moi une légende, et une légende qui a influencée ma vie, scriveva Marguerite Yourcenar a Egon de Vietinghoff.

Dall’altro capo del filo, c’è anche la villa Adriana, il capriccio che l’imperatore Adriano aveva dedicato al suo amato Antinoo. Lì dove il padre di Yourcenar, Michel de Crayancour, l’aveva portata da ragazzina. Quel padre avventuriero, amatissimo, in cui Adriano e il suo amato Antinoo si sono confusi e fissati per sempre. Una specie di “invito”, la maniglia che apre la porta, la soglia della foresta, il punto di saldatura tra pratica e visione del mondo. Dopo la morte della madre, il padre la portò con sé, assecondando i suoi desideri, in una vita libera, autodidatta, raffinata e peregrina, a Parigi, a Londra, per il Mediterraneo, non troppo lontano da Monaco dove giocava, non troppo lontano dalle sue amanti. In un rapporto esclusivo, di confidenza in cui lui, dirà Marguerite “c’ètait à peine un père”. Erano assieme al British Museum quando Yourcenar vide per la prima volta quel bronzo di Adriano, così brutalmente virile.

Più che cercare cosa ci sia stato dall’altro lato del labirinto della vita conta piuttosto la distanza, lo spessore che bisognava mettere tra l’inizio e la fine, tra un’epoca e l’altra, perché lei ha sempre cercato di mostrare come la vita sia più al passato che al presente, troppo corto e limitato, informe senza il reculo necessario. Solo un filo allora, sempre lo stesso, da un capo all’altro, dal vecchio al nuovo continente, dal passato al futuro, dai suoi antenati (Archives du Nord) a lei, molecole sparse che si aggregano per caso, una corrente sensuale che dura fino alla fine, fino all’ultimo sospiro. Un’alleanza incandescente tra poesia ed esattezza, erudizione e intuizione, tra vibrazioni ed inerzia.

L’antichità per Yourcenar sarà il campo dove avviene la scrittura. Mai l’antichità come tale, oggetto dell’interesse di uno storiografo, ma solo nel punto in cui si fa “geologia”: traccia, breccia nel nostro rapporto con il mondo vivente. La lingua affinata, covata per anni (con la maturità lei non ha più nessuna fretta di pubblicare) diventa lo strumento per salvare il tempo dalla rovina, ridare senso agli oggetti divorati dal tempo, come strofinare una pietra per ridargli lucentezza. Accompagnare quel processo fragile e possente di disfacimento e ricostruzione degli oggetti nella stratificazione del tempo. Lì lei vedeva la bellezza e il senso della condizione umana. E la scrittura è come un manto vegetale, licheni che avvolgono la nostra storia lasciata alle intemperie dandole una nuova forma.

L’antichità è stata anche un codice tra lei e il padre: le vestigia della sua storia, della sua biografia; il suo archivio. Un sistema di rimandi e specchi. La loro leggenda anche. Prima di essere poi, attraverso l’opera, quel legame sacro e mistico che ci lega al tutto, la lingua per raccontare quel sentimento così universale del tempo che passa. Cos’altro è stato Jerry Wilson, l’ultimo compagno, se non un riverbero di quella vecchia passione per André Fraigneau, l’uomo che l’aveva già scartata, derisa all’inverosimile? E le due immagini si riuniscono in quel cavaliere polacco del ritratto di Rembrandt. L’antichità è stata anche un talismano come l’anello di onice con l’effige di Adriano (sempre Adriano), regalo del padre, che Marguerite regala, anzi sacrifica in nome di quella passione crudele per Fraigneau, offrendolo quasi per ripicca, o per disfarsene, all’amico greco, l’altro André, che la porterà con sé per il Mediterraneo, per fare distanza, distanza da Fraigneau.

Del resto, anche la Petite Plaisance, è una pietra, una gemma, un lugo da accarezzare per equilibrare le emozioni, un luogo per rimanere fedele alla sua scelta.

Ma non per sempre. Per quarant’anni Yourcenar resta a fianco di Grace Frick, la traduttrice che l’aveva salvata portandola via con sé in America. Assieme hanno scelto Mont Desert e vissuto in quel cottage vecchia Inghilterra in cui c’era tutto quello che bastava. All’inizio la gente del posto le guardava con curiosità e molti pregiudizi, come due streghe, soprattutto Grace, con quel suo sguardo severo. Poi si sono integrate in quella comunità ai confini del mondo. Grace l’ha amata e controllata, gestita fino alla fine, annotando fino alla fine, quando il cancro l’aveva oramai distrutta, i mille mali immaginari di Yourcenar, la temperatura alta, i crampi, i raffreddori, come una madre. Alla fine, di quella coppia erano rimaste solo due donne vecchie signore, assistite da infermiere, che si curano a vicenda. Sempre le rovine del tempo.

Ma quando Grace Frick è morta, dopo l’ultimo Natale, quello del 1981, o piuttosto prima, già durante la sua lunga e penosa malattia, negli ultimi otto anni, tutto stava già cominciando a cambiare. L’occasione è stata l’arrivo di Jerry Wilson, un ragazzo giovane, giovanissimo, che veniva dalle terre del sud America come Grace, fotografo, o appassionato di fotografia, ribelle, omosessuale. Tutto e niente. Fatti i funerali di Grace, svuotato il suo armadio, Yourcenar parte con Jerry, troppe valige, un vanity-case stracolmo, l’astuccio d’ebano con i suoi gioelli, e tanti vestiti eleganti di seta, di lino, mussolina e popeline. I bauli pieni di “sfilacciature d’uccello e pietre false”, di quella Saffo troppo alata e troppo carnale. Ed è di nuovo la giovane donna che partiva per il Midi della Francia con suo padre. Tutto è una questione di specchi, angoli di riflessione e incidenza del tempo sull’immaginazione. Di certi dettagli reali, punti di contatto, accadimenti, certi oggetti. “Parlons de coincidence, ce mot qui suffit à defaut d’explication”. Anche la scrittura è sempre stata per lei una continua riscrittura, ci sono stati un primo Adriano, un primo Zenone, La mort conduit l’attelage nella prima bozza composta già a vent’anni.

Jerry diventa il suo segretario particolare e di ritorno dalla crociera, occupa la stanza in mansarda che era stata di Grace. “Ce dont j’avais cru m’evader est miraculeusement revenu”. Anche quella con Jerry è una relazione che non si sottrae ai suoi capricci e alle sue miserie: vergogna da parte di entrambi, quella di Marguerite quando tornano a Parigi per l’ammissione all’Accademia, quando è invitata a cena dai Gallimard e presenta Jerry come il suo autista, quella di Jerry per questa donna che potrebbe essere sua nonna; di piccoli ricatti e ripicche, soprattutto da parte di Jerry, di malumore quando sono a Parigi, nell’appartamento del Marais che Jerry condivide con il suo amante Maurice; di separazioni e ritorni; di scrittura dopo quella primavera dell’81 che è stata il culmine dell’euforia; di colpi di testa, di Jerry, quando si lancia dalla nave da crociera nel Nilo; delle urla di Jerry dirty old beach, ugly witch piece of shit; di colpi; di scuse; di rassegnazione di Marguerite, scioccata fin nel profondo dell’anima; di nuove scenate, sedie lanciate per aria, di lividi sui polsi di Marguerite; di viaggi ancora in Giappone, in India, in Africa nonostante l’età, nella speranza di rincorrere la primavera di una storia agli sgoccioli e scacciare i demoni; fino a sopportare quel viaggio a tre in India, perché l’amore è un castigo, e Jerry si è  innamorato di un cocainomane, Daniel e lei che cerca pateticamente di attirare la sua attenzione e lui che le grida di chiudere il becco; di morte che sempre ritorna, quella di Maurice, che annuncia quella di Jerry di AIDS. Mentre lei, come quel suo Adriano, si abbandona al disordine, alla vita che ci anticipa sempre.

E quando tutto sarà di nuovo finito, e Marguerite morirà di un ictus, lì alla Petite Plaisance, sarà di nuovo come un riverbero; le sue ceneri con quelle di Grace, l’una accanto all’altra. Tornerà alla calma, “le calme, l’intelligence de l’amour”. La vita è un prisma. La stola bianca disegnata da Yves Saint-Laurent di quella sera all’Académie e le due metà della pietra di malachite.

La mort, quand vient la mort, nous joint sans nous unir.

Silvia Acierno