È il 1929 quando Marguerite Yourcenar pubblica Alexis. Ha ventisei anni. È il primo romanzo dell’autrice a vedere la luce. Più precisamente si intitola Alexis o il trattato della lotta vana e grazie alla notorietà del testo sappiamo già quale lotta vana riguarda: l’omosessualità. In realtà, per tutto il corso del libro la parola non viene mai pronunciata apertamente. Novanta pagine o poco più e ci si chiede continuamente che cosa? Che cosa affligge il protagonista, Alexis, che cosa lo spinge a iniziare una lettera alla moglie dai toni confessori eppure timidi, appena accennati, che continuamente si avvicinano al fulcro, al nodo centrale del problema e continuamente se ne allontanano? Che cosa lo induce a cominciare a riassumere la sua intera esistenza, a riavvolgere il filo delle sue esperienze, a partire dall’infanzia in un tetro, piccolo paese della Boemia centrale e seguitando a corredare la narrazione di dolenti perifrasi: «Mi contraddico, lo vedo», «Sento che sto diventando molto oscuro», «Non posso far fronte a me stesso»? Solo a un certo punto, a circa metà dall’inizio, si interrompe per dichiarare: «Certo basterebbe, per spiegarmi, qualche termine preciso, che non sarebbe neppure indecente dal momento che è scientifico. Ma non ne farò uso […] non sono medico; non sono neanche più certo di essere un malato. La vita, Monique, è molto più complessa di tutte le possibili definizioni; ogni immagine semplificata rischia sempre di essere volgare».

La voce di Alexis è pertanto un’esitazione prolungata. Lo stesso romanzo si incarna in una tensione esitante, nello sforzo di prendere fiato per poi finire a recalcitrare dolorosamente, a ripiegare su immagini poetiche, su improvvisi scorci letterari che distolgano dalla verità, che distolgano dal reale motivo della narrazione.

Sulle ambientazioni in cui Alexis si muove, dalla casa di Woroino al collegio maschile dove trascorre la prima giovinezza alla stanza di Vienna in cui abiterà da ragazzo, pende una calma immobile e inquietante. Gli stagni del paese natale sembrano grossi pezzi di cielo grigio caduti sulla terra. Anche il silenzio è «una massa di materia ghiacciata», sotto di essa «la vita continua, ma non si sente». La calma perciò è una menzogna e della peggior specie. Solo il piacere rende le cose «divinamente nude» e semplici, semplici come la grande povertà, il dolore, la malattia e la morte. Ma il piacere, alla pari di tali altre componenti, è proibito.

Ciascuno di questi ricordi è sollevato, intessuto col successivo nello stesso tono grave e sommesso, quasi fossero i brani di una partitura musicale. Del resto, «orge di musica» gli suscitano «lacrime versate quando, a ben guardare, non ce n’era ragione» e durante una convalescenza, obbligato su un letto d’infermeria, una musica sale in lui, una musica tranquilla e possente, che lo avvolge e lo riempie come un’onda lenta, regolare e voluttuosa. La musica lo placa, gli consente di essere non più «un ragazzetto malaticcio, spaventato di se stesso», ma di diventare ciò che è veramente perché «tutti ci trasformeremmo se avessimo il coraggio di essere ciò che siamo».

E ancora il cuore della questione è taciuto, aggirato, intorno a esso vengono tracciati cerchi concentrici dapprima grandi e poi sempre più piccoli. Quando finalmente si trova in prossimità della sua verità incandescente, ecco che si allontana di nuovo, in punta di piedi, riprendendo a indugiare, a sospirare con lentezza. 

Il suo primo rapporto amoroso con un individuo dello stesso sesso è frettolosamente omesso. Non si parla neanche di un vero incontro con una persona in carne e ossa. La storia menziona un incontro con la bellezza lungo un sentiero fiancheggiato di alberi.

I compagni di giochi sono da lui tenuti a debita distanza, aspramente criticati a causa della loro volgarità e promiscuità, per il loro cinismo. Le donne sono apertamente disprezzate, mistificate: certo, non sono uomini.

Costretto a un certo punto a ripiegare su un’esistenza clandestina, notturna e peccaminosa, non resiste al disprezzo che gli suscita la debolezza della sua propria carne. Si abbandona atrocemente all’insipidezza di certe sere. E non vi è soluzione, dal momento che la vita in famiglia è «squallida come un lunghissimo novembre». Tenta di confessare quel segreto indicibile, quel peso fatale alla madre, ma gli manca il coraggio e finisce a tacere per sempre, prima di fare la conoscenza della moglie Monique.

«Mi dicevo che nulla ne valeva la pena, e che non voler vivere sarebbe stato piacevole».  

Una lettura approssimativa oggi porterebbe a pensare che fu il clima oppressivo dei tempi a decidere dei tormenti di Alexis. La stessa Marguerite Yourcenar scrisse in seguito che il problema della libertà sensuale è in larga parte un problema di libertà d’espressione. Eppure la storia affronta una tematica di cui in realtà non parla mai, a dire il vero neppure la menziona, la affronta trasversalmente, dunque simbolicamente. Il testo è un costante tentativo di mettere a fuoco un problema che rimane ammantato di invisibilità. Pertanto, la colpa a cui si riferisce Alexis, la colpa che tanto lo grava e gli impedisce di vivere, altro non è che la colpa più ampia di essere se stesso. Non se stesso in quanto omosessuale, bensì se stesso in quanto essere determinato.

Sostiene all’inizio che «tutta la nostra esistenza ha come condizione l’infedeltà a noi stessi». C’è dunque al mondo qualcuno di davvero felice, di davvero compiuto? Agli occhi di Alexis, sicuramente no. Questa inadempienza al principio della realtà, del rilasciamento, alle gioie della natura e della primavera, alle «sensazioni dolci» è comune a tutti, o meglio, a chiunque percepisca l’intreccio della propria identità. Ne consegue l’assoluta impossibilità a goderne.

Alexis soffre perché è vivo. Un facile sillogismo potrebbe concludere che patisce la vita più degli altri proprio in quanto omosessuale. In parte è senz’altro vero. Solo il conformismo, l’adesione a una norma che da un certo punto in poi diventa di pubblico dominio sottrae alla vergogna dei desideri consumati in solitudine. Tuttavia, Marguerite Yourcenar sembra suggerire che una tale adesione non può sussistere. Siamo sempre soli, anzi no, sottolinea Alexis, disgraziatamente si è sempre con se stessi. Il fardello che gli curva le spalle, che lo induce a ripiegare verso il basso non è che il nocciolo inscindibile di buio di cui parlava Andre Gide.

Ecco perché l’omosessualità non viene mai espressamente nominata: individuandosi in quella parte di noi che oppone resistenza, non trova tregua, percepisce in maniera eccessiva le proprie sintomaticità e pertanto impone di vivere alla stregua di esiliati, si presta a essere qualunque cosa. È una colpa candida, a differenza della torbida purezza altrui. La condizione di Alexis è pertanto una condizione universale.

Benedetta Barone