Per una lira è il titolo di una canzone di Lucio Battisti che comincia così: Per una lira io vendo tutti i sogni miei. E poi la voce a strisce di Battisti racconta la storia di qualcuno che a malincuore si distacca da una parte di sé. Ascoltandola, ho sempre pensato a chi scrive. In particolare agli esordienti. Chi, per la prima volta (e spesso per una lira) consegna il proprio destino al mondo. Nell’incertezza e nell’imprecisione, un esordio insegna a scrivere più di un capolavoro (anche quando le due cose coincidono: David Foster Wallace, La scopa del sistema, 1987). Per una lira è uno spazio dove leggendo le nuove voci della narrativa, italiana e straniera, metteremo in luce alcuni aspetti di un romanzo legati al gesto dello scrivere per la prima volta, ovvero alla scoperta della propria voce.
Alessandra Minervini, scrittrice, editor e writing coach. Il suo primo romanzo si intitola Overlove, LiberAria 2016. Il suo sito è alessandraminervini.info. Qui gli articoli pubblicati su exlibris20.
Ai margini di una città assediata, distrutta, che è ieri ed è domani, è qui ed è altrove, vive qualcuno di nome Giovanni. La sua casa è sulla terra incendiata dal gelo, in una periferia esangue, accasciata sul relitto di un acquedotto romano nei pressi di una ferrovia morta. È la casa in cui Giovanni vive e il padre e il fratello muoiono. È la casa da cui Giovanni viene cacciato e da dove comincia un vagabondaggio tra tunnel, ruderi infestati da cani, carcasse di automobili e uomini spaventati.
Uomini dominati da un ferino istinto di sopravvivenza, da un’insensatezza che è costruzione e sfacelo. È destino. Una voce lo segue e lo spinge a testimoniare la fine di un mondo che non smette di finire, perché l’assedio della città c’è sempre stato. La voce atona di un profeta retroattivo, priva di pathos, che registra la violenza senza un sussulto ma rimane ipnotizzata dalla materia; che parla da un buio e da un vuoto, nomina, è interiore e rimbomba nell’ovunque. La voce che accompagna Giovanni fra le macerie mentre uomini ciechi si divorano l’un l’altro, lo scorta fra incubi di bambini in fuga e supermercati saccheggiati, in una regione più scura del sonno, senza fame e senza vita.
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Lezione n. 3
Raccontare lo spazio
(parte prima)
Prima di scrivere una storia chiediamoci: cosa racconto? Devo raccontarlo o posso farne a meno? Perché quando si scrive non si tratta dell’importanza della nostra vita, ma dell’importanza di una narrazione: cioè l’importanza di dire una cosa importante. Se non sapete scegliere, immaginate uno spazio, interno ed esterno, e decidete cosa raccontare di questo spazio se tutto o solo un metro quadro, per capire cosa è racconto e cosa si può, si deve, tacere. Gli spazi in cui si muovono le storie hanno più contenuto delle parole dei personaggi. Penso ai racconti di Carver o ai romanzi della Strout. I luoghi identificano la storia prima dei personaggi. In qualche modo, il set (termine semplice ma utile) è la storia. Questo succede nel primo romanzo di Andrea Esposito, Voragine, uscito qualche mese fa per Il Saggiatore.
Prima nota di merito va al titolo, Voragine descrive bene il vuoto e il pieno che caratterizzano i luoghi desolanti delle vicende: una stazione abbandonata e le sue rotaie, una baracca come casa, un magazzino chiamato “sfascio”, strade come ruderi e ruderi come esistenze. (Seconda esplicita nota di merito va alla copertina e a tutto il libro, proprio come oggetto testuale.) La storia è una storia che senza i luoghi non esisterebbe. Giovanni, il protagonista, vive ai margini dello spazio e del tempo, brancola, vagheggia, mugugna in una apparente assenza di movimento.
“Sul tavolo da lavoro ha piovuto e nessuno l’ha coperto. È arrivato il freddo le cose sopra il tavolo si sono arrugginite. Si sono coperte di terra e sono diventate avanzi e macerie. L’erba intorno è cresciuta e il tetto del capanno si è piegato.”
A parte la morte non c’è altra vita nel romanzo, eppure è una storia vitale. Lo sguardo di chi racconta illumina il buio del “tunnel che inghiotte la ferrovia”. Le parole così precise riscaldano l’abitazione che il protagonista condivide con il fratello (quasi) morto e il padre violento e sempre ubriaco.
“E poi il padre beveva con affrettato furore e ricominciava a parlare mangiando le parole. E parlava ancora in una voce non sua. Diceva che un uomo oscilla sempre ed è sempre a metà. Oscilla sempre tra bestia e cosa. Quando mangia è una bestia e quando costruisce è una cosa. Quando costruisce una porta è una cosa. Quando fa qualcosa che serve è una cosa. Ma quando è una cosa lo è per obbedire alla bestia. (…) La bestia è un destino.”
Seguiamo la vita, senza alibi, di Giovanni come se fosse la nostra. Ghiacciamo in mezzo agli sterpi, ci spaventiamo nel buio di un tunnel di periferia, ci nascondiamo dietro il dito di un’umanità decrepita. Leggendolo, mi sono venuti in mente due esordi italiani, di qualche anno fa, accostabili per la marchiatura visionaria: Il tempo materiale di Giorgio Vasta e Neppure quando è notte di Mario Desiati. In un mondo in cui tutto si fa racconto, trovare lo spazio per disarcionare una storia e renderla una specie di forma di vita autonoma, perfino da chi l’ha scritto, è un grande pregio di chi scrive.
“La notte si ripara dietro cespugli scheletrici accanto al guardrail. Sonno leggero spezzato da versi lontani. Ricomincia il cammino quando è ancora buio. L’alba filtra lenta tra i crinali. Attraversa una mattina di nebbia. Arriva a un casello. File di auto abbandonate. Nessuno nei gabbiotti. Niente cibo. Prosegue oltre le macchine. I vetri rotti e i sedili staccati e gli sportelli accartocciati o smontati. Le spia come un insetto quando si ferma a mangiare su una collinetta poco oltre un grosso svincolo. Scende su una strada dall’asfalto spaccato e gonfio di gobbe. Scavalca un reticolato arrugginito e si ritrova sulla ferrovia morta.”
È un romanzo poetico, dove la poesia si posa nello spazio del non detto. Come dentro un’ostrica che patisce nel guscio e per difendersi la contorna di madreperla. La perla di un’ostrica fa di un trauma una cosa bella.
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