«Manolo il gitano aprì gli occhi, guardò la debole luce che filtrava dalle fessure della baracca e si alzò cercando di non fare rumore». Con queste parole inizia il romanzo della fine degli anni Novanta di Antonio Tabucchi, La testa perduta di Damasceno Monteiro, un testo in grado di catapultare le nostre, di teste, oltre i confini della pagina, in un’atmosfera immediatamente esotica, composta da giochi di ombre e nomi suggestivi.

Siamo in Portogallo, nella caotica e movimentata città di Oporto. Un vecchio si alza la mattina presto per andare in bagno. Una scena di ordinaria quotidianità, sebbene inserita in un contesto di per sé già meno comune: filtra, già dalle prime righe, un senso di emarginazione, ma anche di immediata tensione, perché qualcosa sembra dover succedere in quella placida mattina, e qualcosa infatti succederà. Tra i rovi vicino alla “baracca” di questo personaggio, viene ritrovato il corpo senza testa e crudelmente martoriato di un uomo. Chi è il colpevole? Ma soprattutto, chi è la vittima? Per risolvere tale mistero Firminio, giovane giornalista squattrinato di Lisbona e impegnato nella scrittura di un saggio di gusto spiccatamente letterario, è costretto ad accettare un “semplice” caso di omicidio. Non che un’uccisione del genere venga percepita dal protagonista come “usuale”, ma di certo le ricerche del ragazzo portano a scoperte inaspettate, e lo trascinano in dinamiche ben più grandi di quelle relative alla piccola città, dinamiche che forse non hanno tempo e spazio, come anche i casi di cronaca del nostro paese in tempi più recenti hanno dimostrato.

Il senso di confusione che investe il lettore fin dalle prime pagine riflette perfettamente quello di smarrimento del protagonista appena arrivato in città: le dichiarazioni dei vari personaggi legati al caso appaiono subito contraddittorie, ed è solo grazie all’aiuto di dona Rosa, l’anziana proprietaria della pensione in cui egli soggiorna e profonda conoscitrice delle strade e delle voci di Oporto, che Firminio riesce a scoprire il nome dell’uomo ucciso. Si tratta di un giovane garzone che lavorava in un’azienda di spedizioni locale. E sarà proprio tramite il suo nome che Tabucchi riesce a rivelare la “verità sotto la verità”, ovvero quella degli emarginati: in un turbinio di piccole strade colorate e di osterie i cui cibi vengono descritti così abilmente da sentirne quasi il sapore, la città mostra le sue radici fatte di corruzione, abusi di potere e traffici illegali, che circondano e legano un giovane decapitato a una frangia della Polizia di Stato.

Sono le prove a giustificare le accuse contro quest’ultima, ma serve un uomo in grado di dar loro la giusta forza, e di certo non può essere il protagonista creato dall’autore. Compare quindi uno dei personaggi maggiormente poliedrici dell’intero libro, l’avvocato Mello Siqueira, detto Don Fernando, dapprima enigmatico e piuttosto burbero, poi sempre più riflessivo, fino a incarnare la figura mitica di un uomo di legge e filosofo allo stesso tempo. La bellezza dei dialoghi tra il giovane giornalista e l’avvocato, da sempre “amico dei più deboli”, si mostra attraverso un abbondante uso del discorso diretto, che trascina e rapisce in un botta e risposta dal sapore dialettico.

Dissertazioni di questo tipo spezzano il ritmo di una narrazione altrimenti estremamente concreta: i due personaggi capiscono di dover combattere non contro il singolo, ma contro un sistema ben rodato e stabile, e scelgono con cura i modi e i tempi di pubblicazione degli articoli, così come le persone da intervistare. La collaborazione, trasformata ormai in sincera amicizia, porta i suoi frutti in un terreno complicato, ovvero quello del tribunale militare. Tabucchi sceglie a questo punto di essere meno preciso, più soggettivo, utilizzando tuttavia uno stratagemma apparentemente iper-oggettivo: «“Comincerò con una domanda che rivolgo prima di tutto a me stesso”» disse Don Fernando «“Cosa significa essere contro la morte?”».

E qui la nostra visione del processo si interrompe. Il tempo del racconto si blocca e il lettore si trova con Firminio in un locale durante l’orario di chiusura, mentre ascolta la registrazione del discorso di arringa di Don Fernando contro il poliziotto imputato, ex eroe di guerra coloniale e ora a capo dell’organizzazione criminale interna all’ordine a cui appartiene. Eppure, il discorso che tutti attendono, non viene presentato come lineare e articolato, ma piuttosto frammentato. Il nastro non è riuscito a intrappolare la tonante voce dell’avvocato, che risulta a tratti incomprensibile, provocando veri e propri “vuoti” sulla pagina, espediente che non toglie, ma anzi aumenta il fascino di una riflessione immaginaria sulla giustizia, resa in tal modo estremamente realistica:

«……………………..mostruoso, ungeheuer, mostro, vampiro che si nasconde dietro la Norma Base………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………….. quello scrittore praghese non poteva sapere ciò che il popolo della lingua nella quale scriveva avrebbe commesso…………………………………………………………………………………………………………perché evidentemente l’omicidio non basta……………………………………………la tortura………………………………………………………………………………………………………….. gli aguzzini……………………………………………………………………………………………….………………………………………prima di uccidere bisogna far soffrire, infierire, tormentare le carni dell’uomo……..……………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………….…..direte e diremo che nessuno di noi è responsabile di quella mostruosità storica, ma dove finisce la responsabilità individuale? Perché uno dei fondamenti teorici della mostruosità, la tortura………………………»

Pagine di un monologo intermezzato e sconnesso, che spaziano da brevi parole di accusa a estese citazioni letterarie, e che rimangono poi sospese, inconcluse, nel momento in cui il giovane spegne demoralizzato il registratore e racconta in poche righe la conclusione dell’arringa a un cameriere partecipe dell’ascolto e intento nelle pulizie finali.

Non sarà una vittoria a concludere questo libro, ma un nuovo inizio: dopo un altro balzo temporale, è sempre Don Fernando a non arrendersi, a richiamare Firminio, vincitore da poche ore di una borsa di studio a Parigi per sei mesi, per informarlo della sua volontà di riaprire il processo: ha un testimone oculare. Questa volta ci riuscirà.

Più che un messaggio di speranza, è un invito alla perseveranza quello che chiude questo romanzo, tratto da un fatto di cronaca avvenuto in Portogallo il 7 maggio 1996: il giovane si chiamava Carlos Rosa, di anni ne aveva venticinque e fu torturato e ucciso nel commissariato della Guardia Nacional Republicana di Sacavém, nella periferia di Lisbona. Una storia che non suona nuova neanche al lettore nostrano, sebbene i nomi dei personaggi e delle istituzioni siano diversi: eppure, ciò che resta uguale, è proprio la determinazione, di un avvocato in una realtà immaginaria, di una sorella in quella vera, e le parole, che qualche volta hanno ancora più forza della morte stessa.

Elisa Tasso

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