La scrittura può costruirsi attorno a quello che non si sa, o che non si vuole sapere, almeno non del tutto, intorno a cose di cui è difficile parlare. Così sembra dire Deborah Levy (Prix Fémina nel 2020) in Things I don’t want to know. Lo annuncia sin da questo titolo sorprendente, una specie di manifesto. Quello che lei non vuole sapere, che la fa scoppiare a piangere insensatamente sulla scala mobile, ritorna. Il passato ti cerca, e ti scova anche lì su una meschina scala mobile. Anche in un albergo isolato a Palma di Majorca dove Levy si ritira per scrivere la sua autobiografia. Quello che dice di non voler sapere, ovviamente lei ha bisogno di ritrovarlo. Ritrovarlo, fuggendo però, sentirselo addosso proprio mentre gli sta voltando le spalle. Ritrovare la bambinetta di pochi anni che a Johannesburg vede sciogliere l’omino di neve che ha fatto assieme al papà e risucchiare il padre in un furgoncino che lo porta via. Il padre, ebreo lituano, storico e membro dell’African National Congress, fu prigioniero politico per quattro lunghi anni. Levy ha bisogno di ritrovare la bambina ammutolita nella casa della madrina. Riaprire la gabbia del cardellino, che aveva aperto da bambina in quella casa. Liberare l’uccello, liberare il cuore. Ritrovare l’adolescente che scimmiotta le grandi scrittrici, suoi modelli, che nel secolo scorso scrivevano nei bar parigini. Solo che lei si sta atteggiando in un bar di un miserabile sobborgo londinese, dove la sua famiglia è espatriata in un esilio volontario dopo la prigionia del padre. Dove i genitori si sono poi separati e la madre, dattilografa, trascura i figli, per necessità. Questi moments of being hanno a che vedere con il senso profondo di essere scrittore per una donna, con la marginalità, con l’infanzia nell’Africa dell’apartaheid, con il padre, la madre, la loro separazione, l’entusiasmo per certi modelli, il pensiero. Quello che con questa formula Deborah Levy cerca di dire è la difficoltà di narrare tutte queste cose, di ritrovare la propria voce, che è seppellita da tutto il resto persino dalla sua stessa voce alta, posticcia, quella che ha dovuto imparare. Ma cercare le cose che non vogliamo sapere vuol dire anche ritrovare quello che ci separa da noi stessi, quello che scava comunque un varco per sfuggirti. Scrivere le parole che abbiamo cancellato. Scrivere di ciò che non sappiamo piuttosto che di quello che conosciamo, che abbiamo imparato diligentemente. Così l’ideologia, il motore storico, gli egoismi e l’estetica (Why I write, George Orwell), finiscono in posti insospettati, nella realtà di ciascuno di noi, nella nostra vita. I quesiti filosofici stanno lì negli accadimenti minimi, nei dettagli fuori posto, nei sentimenti scontati. Un pianoforte chiuso, un’arancia spaccata, un quaderno di appunti…
La vita spesso prende forma attorno a quello che non si sa, che non vogliamo, né possiamo sapere, almeno fino in fondo. Che scopriremo o non scopriremo mai, che avremo il coraggio di raccontarci oppure no. Forse questo è davvero il senso della vita: riuscire a dirci certe cose, superando il pudore, la superbia, il perdono o il risentimento. E alla letteratura forse il compito misterioso di inseguire le ragioni per le quali ci teniamo dentro certe cose, trattenerle nelle pagine, o anche solo lasciarle scappar via. E noi lettori a inseguire i perché. Così sicuramente avviene per le protagoniste del romanzo di Lisa Ginzburg, filosofa e romanziera, nipote di Natalia Ginzburg. Ci sono esistenze apparentemente integre che sotto la facciata si vanno sgretolando segretamente; quelle che racconta Lisa Ginzburg invece, si guastano da subito, da subito si rompono e lungo tutto il romanzo cercano strade per ricomporsi.
Maddalena e Nina, le protagoniste di Cara pace, sono state abbandonate dalla madre, quando erano molto piccole. E poi da un padre, che in realtà non c’è mai stato. Il padre le affida prima alle cure di sua madre, e poi, dopo la morte della nonna, ad una ragazza francese, una specie di governante, con cui vivono in un appartamento romano mentre lui lavora a Milano, raggiungendole il fine settimana. Il tempo passa, Maddalena, la narratrice, è oramai una donna con la sua vita parigina, con un marito diplomatico, dei figli, e le sue maratone da un lato all’altro della città. Nina invece è a New York, lavora nella galleria del suo compagno ed è in un momento difficile di questa relazione.
Lisa Ginzburg racconta come queste due ragazze si siano costruite ognuna la sua carapace, il suo scudo per affrontare quotidianamente il trauma che si sono lasciate dietro. La corteccia in cui Maddalena si è rinserrata è molto più visibile. Il suo carattere si fa duro. Maddalena, osserva, si osserva, giudica anche severamente, ma tutto resta dentro, soffocato o semplicemente taciuto agli altri. Nina, invece, è più esuberante, lunatica, instabile. Eppure la cocciutaggine con cui non sa tacere una parola sgradevole, quella con cui incalza Maddalena, è anche essa una scorza, una carapace, per difendersi da quello che le è accaduto da ragazza. Lisa Ginzburg racconta in tutte le sue pieghe la simbiosi di queste due donne, il legame che le unisce, che è anch’esso uno scudo che le ha protette, in mancanza dei due genitori. La simbiosi da cui hanno anche entrambe bisogno di liberarsi attraverso fughe, quella di Maddalena per la Francia e quelle di Nina nelle braccia di uomini inaffidabili. Al centro del romanzo, più che la mancanza dei genitori, c’è proprio questo vincolo in cui le due sorelle hanno bisogno di rifugiarsi e che stringono anche per necessità.
Ma oltre alla carapace e alla simbiosi, cosa ci sta raccontando davvero Ginzburg? Forse la necessità incosciente di Maddalena di capire la fuga della madre: quello che non vogliamo sapere, dunque; quello con cui in qualche modo Nina, così simile alla madre, bellissima come lei, è più in contatto. In fondo è il linguaggio del suo corpo e della sua sensibilità, che invece Maddalena proprio non sospetta di possedere. Il motivo che spinge Maddalena a Roma, in una partenza che progetta lungo tutto il romanzo e che compie solo verso la fine. Quello che non può raccontare alla sorella, almeno per ora. Quello di cui in realtà non sono in grado di parlare.
In un gioco di parole lieve e poetico, la carapace è anche una cara pace. La carapace in cui si rifugiano le due protagoniste non è capace di offrire una vera pace. È piuttosto una stabilità emotiva, quella che Mylène, la ragazza che si occupa quotidianamente di loro, le aiuta a costruire. La quiete è tutta da raggiungere, quella che Maddalena più di Nina cerca. Non sta nella vita parigina sapientemente organizzata tra mondanità, quanto basta, piacere collaudato ma stanco con suo marito Pierre, o la maternità, anche lei sapientemente governata. In realtà la quiete arriva proprio alla fine. Fuori da tutte queste gabbie. Viene da un atto improvviso di comprensione, di immedesimazione con la madre. E solo a partire da quella pace, il dolore può finalmente parlare ed essere portato.
Così, Lisa Ginzburg ci porta proprio lì dove Maddalena in qualche modo si perde, perde il controllo su se stessa. Dove inizia la dispersione, che è il luogo privilegiato per incontrare la madre, per riuscire ad immedesimarsi finalmente con lei, nel luogo dove i sentimenti diventano contigui e i corpi si confondono. Dove ci sentiamo parte di un flusso, di una corrente. Solo lì Maddalena inizia a capire, che la vita, come avrebbe detto Natalia Ginzburg, non è né così buona, né così cattiva.
La figura della madre, Gloria, che subisce, tradisce e pianta in asso la famiglia, riesce a raggiungere nel corso del romanzo un’autonomia sentimentale e passionale, un’autonomia professionale, anche. Eppure rispetto a Nina e Maddalena, resta soggetta al marito e alle disposizioni del giudice che non le consente di entrare nella casa dove le ragazze vivono da sole. Solo un incontro settimanale fuori, e le vacanze assieme. In questo Gloria rimane quasi inemotiva, come bloccata di fronte alla fragilità delle figlie. Sulla porta chiusa dell’appartamento dove vivono le due ragazze si dividono le emozioni e ci sono alcune che restano lì dentro bloccate e non possono raggiungere Gloria. E invece, nelle figlie Gloria è sempre così conficcata, vibrante. Gloria è sempre negli occhi di Maddalena. In qualche modo è sempre riflessa sul corpo di Nina, nel suo sguardo così penetrante, nella bellezza del corpo, nelle movenze. Ed è questo amore delle figlie per la madre, nonostante tutto, che Lisa racconta. L’intimità di Maddalena e Nina con la madre che nei pochi anni vissuti assieme, prima che tutto si sfasciasse, aveva permesso alle due bambine di scoprire, sentire, segretamente prevenire i gesti della madre, le sue apatie ed entusiasmi. Come un segreto che però non ha il peso troppo oscuro di un segreto. Che attraversa gli anni, e di cui in qualche modo Maddalena conserva la memoria, nonostante le difficoltà e le mancanze. Quel non-detto non si abbrutisce in una punizione, non si fa ancora più muto. Ma viene preservato come in attesa di un tempo in cui liberarsi almeno un po’ non vorrà dire cancellare tutto, respingerlo ma ritrovarlo coraggiosamente. Avvicinarsi piuttosto che allontanarsi.
Maddalena e Nina potrebbero essere Adriana e l’Arminuta, dei romanzi di Donatella di Pietrantonio; Lila e Lena, le amiche simbiotiche di Elena Ferrante, e tante altre coppie. Due pezzi che combaciano, ma mai alla perfezione, uno negativo dell’altro. Una sorella introversa, riflessiva, che spesso è la voce narrante; mentre l’altra, è più sensuale, estroversa, irrequieta. Si curano a vicenda anche se, a prima vista, la sorella che ha i piedi per terra, e vive più cautamente, sembra essere il solo appiglio. Eppure, l’altra, nonostante la sua vita abbastanza scompigliata, ti avvicina a quello da cui scappi, alle fratture. Quello che le unisce è l’abbandono nelle sue multiple forme, qualcosa che sotterrano assieme, e da cui però nasce un nucleo di vita e di comprensione. Anche se è una vita che si è nutrita di assenze, di fessure, di disarmonie.
La scena di questo romanzo è la famiglia, e i possibili modi di viverla e di raccontarla. È lo stesso interno in cui si è sempre mossa Natalia Ginzburg. Nelle sue opere la Ginzburg mantiene lo stesso sguardo a cui in qualche modo si era allenata da piccola a casa Levi: uno sguardo di stupore, di incomprensione rispetto a due genitori troppo anziani, troppo seri, e in qualche modo distanti e rispetto a dei fratelli e ad una sorella già adulti. Lei era l’ultima, “un impiastro”, così la chiamavano. Dopo, oramai romanziera, conserva nel suo lessico familiare una posizione distaccata, a volte esterna, altre autoironica, abbastanza cinica, rispetto alle famiglie di cui racconta. Lisa invece è dentro, lì accanto a Maddalena e Nina, a volte confondendosi con Maddalena.
La famiglia può essere raccontata come un luogo i cui protagonisti si nascondono in modi anche estremi. E la famiglia è essa stessa un luogo di malessere, di segreti incomunicabili, di terribili egoismi. Un luogo ostile sotto un cielo nitido che si apre su di loro in un orizzonte sconfinato. Sono romanzi che ci attraggono e respingono. E a volte raccontano con una bellezza pura e lacerante più che la storia di quella famiglia, la nostra paura del dolore e delle forme del male. O forse solo il rimpianto che si posa su quello che comunque perderemo. Oppure la famiglia è un pertugio di bruttezze. E allora come avviene in Sette opere di misericordia, straordinario romanzo di Piera Ventre, la famiglia è un insieme di persone interdipendenti che subiscono l’appartamento stretto tra il muro del cimitero e quello del carcere di Poggioreale, e una città che ti incombe addosso, fino a strozzarti quasi. Almeno nella famiglia di Piera Ventre resta la sofferenza a fare da collante, a tenerli uniti “nel gioco sanguinario”; quelle sofferenza che masticano a tavola assieme al risentimento, sotto un cielo azzurro che li respinge giù come in un pozzo.
In Cara pace, invece, nonostante tutto, nonostante la partenza di Gloria, che scardina tutto, nonostante un’infanzia e adolescenza da orfane non orfane, la famiglia resta un luogo di vita, dove ci si continua a guardare anche se non ci si capisce per forza, anche se gli adulti hanno le loro evasioni più o meno accettabili, e i figli le loro delusioni più o meno terribili. Anche se non vivono più assieme. Non è un luogo claustrofobico, dove si ritorna sempre al punto di partenza. È un appartamento vicino ad un parco e a un terrapieno dove le ragazze corrono. Poi saranno delle metropoli che Nina e Maddalena attraversano. Ecco, la famiglia resta un luogo sano, dove le colpe e i risentimenti si possono affrontare.
Quello che non vogliamo sapere, è una specie di parentesi, con cui a un certo punto seguendo un destino casuale, Maddalena inciampa; è quello che spinge Lisa Ginzburg a scrivere questo romanzo familiare, che in qualche modo ha per protagonista anche lei. E quello con cui una famiglia e i suoi componenti non dovrebbero mai perdere il contatto, per quanto possa rimanere compresso e inespresso.
Una donna, sembra dire Deborah Levy, riprendendo la riflessione senza tempo di Woolf in A room of one’s own, per arrivare a scrivere deve passare attraverso delle tappe. Considerare la propria condizione, ripercorrere tutto quello che in qualche modo ha messo più o meno a tacere. L’accettazione o meno della propria condizione, deve aver fatto la guerra con se stessa. Poi, dopo, corre la tenda, si rinchiude in un capanno, come Levy nel capanno dell’amica, o nella stanza di Majorca… Lì, in quella stanza buia più o meno metaforica, la mente si libera dai pregiudizi, dagli schemi, da noi stessi, dal nostro sesso, si schiude, affonda il naso nel mondo, si fa visione, preme per poter uscire. E allora sfoglia i petali della rosa, smuove l’aria, si riversa nella corrente su cui scivola la barca, entra nel taxi che porta via l’uomo e la donna… Ci deve essere pace, scrive Woolf. Per ricostruire i cammini tortuosi che ci riportano a quello che non vogliamo sapere, che avremmo voluto cancellare, quello con cui siamo in guerra, aggiunge Levy. La cara pace, appunto, da cui comincia un nuovo percorso per Maddalena e da cui anche Lisa Ginzburg scrive.
Silvia Acierno
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