Paolo Nori, scrittore, traduttore, da molti considerato il più grande conoscitore della letteratura russa nel nostro paese, o lo si ama, o lo si odia. E se questa asserzione è corretta, se è giusta la mia percezione, recensirlo non è affatto cosa facile. Un romanzo dovrebbe avere un’autonomia scardinata da chi lo scrive, generalmente è così, in particolare con i testi di pura finzione, ma quando i libri sono di base solo autobiografici, e quelli di Nori li sono quasi tutti, diventa difficile realizzare l’intento di scindere l’autore dalla sua opera. Romanzi non romanzi in verità direbbe lui, come nella nota in Chiudo la porta e urlo, testo in cui si evincono la spigolosità e le particolarità del suo carattere, come ad esempio nel capitoletto dedicato al suo modo di essere bastian contrario, «matto come un russo». Tutte specchiature che si riversano nella sua diretta e spesso criticata cifra stilistica.
Parlare del romanzo, è questo che si chiede a chi legge e recensisce, non analizzare la psicologia di chi lo scrive, con le sue peculiarità e le sue idiosincrasie, è un arduo compito nel caso di Nori, poiché è egli stesso il primo che non fa mistero nelle sue pagine e regala ai suoi lettori, non scorci, ma intere e distese vedute della sua vita, della sua visione, della sua cultura, del suo background.
Quindi, come parlare di questo scrittore così osannato e demonizzato?
Restando il più possibile neutrale e dando la giusta ed equilibrata visibilità all’unico vero e protagonista: il romanzo.
Chiudo la porta e urlo è un libro dalla struttura snella, capitoli brevissimi che non seguono un ordine temporale lineare, numerati in forma originale partendo dallo zero, come se fosse un Ground Zero, vere digressioni sulla vita di Nori, già proposti in Sanguino ancora e Vi avverto che vivo per l’ultima volta, romanzi in cui già si intrecciavano le vicissitudini di Nori con altri grandi della letteratura come Dostoevskij e Achmatova. Nel libro finalista al Premio Strega 2025 le parti biografiche, come gli incidenti, il duplice avvicinarsi alla morte dell’autore vengono ripresi, come il legame e il passato con la moglie Togliatti, e il rapporto con la figlia, quello con il successo, il suo relazionarsi con la scrittura, con la letteratura e con la sua città natale Parma. Appunti di vita mesciati ai versi e agli aneddoti di Raffaello Baldini, poeta di Sant’Arcangelo di Romagna, vena pulsante che attraversa la vita e le pagine di questo romanzo. Nori parla con sincera ammirazione e infinito stupore di un poeta che non deve essere dimenticato, con una percezione della vita e del tempo quasi ancestrali. Baldini si innesta in tutte le peregrinazioni mentali di Nori, solidificando e dando sostanza al romanzo.
Chi avesse già conosciuto e apprezzato lo scrittore nei libri precedenti troverà conferme in questo testo, nel modo di raccontare, nella centralità della biofiction: sono le vite degli altri, grandi della letteratura che si insinuano nella vita di Nori, facendo emergere la sua conoscenza e le sue intuizioni.
Il romanzo è scritto con una prosa colloquiale, a tratti musicalmente cadenzata come quella emiliana, ricca di anacoluti e in alcuni momenti volgare, come una prima lingua primordiale. Infatti, ricorda Nori, scrive Dante: «è il volgare sia perché fu la prima ad essere usata dal genere umano… sia perché ci è naturale, mentre l’altra è piuttosto artificiale.». Ottimo spunto di riflessione, in generale bisognerebbe rivedere e ridefinire il concetto di artificiale e artificioso: nella prosa della letteratura contemporanea italiana prevale uno stile d’esercizio a danno della spontaneità sintattica. In quale posizionamento sia trovi la prosa di Nori è di difficile interpretazione. Sicuramente è atta a scuotere, provocare e infine colpire.
«È quello, mi dicevo, è quello che bisogna mettere dentro i romanzi, le cose che non si raccontano, che non si dicono, che non si possono dire.»
«…quella Romagna lì del mare delle feste delle discoteche, a me mi sembra malinconica anche quella, anzi, malinconicissima, se si può dire, anche se il posto più malinconico dove son stato è Eurodisney…»
Le ripetizioni, l’uso della punteggiatura, è tutto calibrato. Riprendendo la poesia Coglioni di Raffaello Baldini, Nori si interroga per gran parte del libro sulla sua, come la definisce lui, coglionaggine. E se fosse solo un artificio, uno strumento? Lui potrebbe comporre come vuole, lo testimonia la poeticità del capitolo 1.52 La speranza. Tutto l’intero libro è disseminato di citazioni, collegamenti sui più grandi autori russi, Dante e tanti altri, ma ho scelto un altro passaggio per far emergere, forse, il vero Paolo Nori:
«Fine. Si accendono le luci, è come svegliarsi, ti alzi, e basta un niente, che le tieni il cappotto, che se l’infila, che la stringi, non molto, solo sentirla.»
Difficile compito tentare di disgiungere il personaggio Nori dalla sua scrittura e dal suo romanzo, così come definire e raccontare il suo testo. Concludo dunque trascrivendo la risposta della grandissima poetessa italiana Vivian Lamarque a una domanda che gli fece proprio Nori: “Se a te Chiudo la porta e urlo non sembra un romanzo, cosa ti sembra?” E lei dopo un po’ mi ha risposto “Mi sembra una circonvallazione”.
Caterina Incerti
E tu cosa ne pensi?