Leggere 🔗Quello che so di te di Nadia Terranova è come entrare in una stanza piena di luce e polvere, dove ogni oggetto ha una storia sussurrata, e dove anche i silenzi pesano come pietre. Ci si trova a camminare tra due mondi: quello presente e concreto di Messina e di Roma, con i suoi rumori e i suoi odori, e l’altro, etereo, popolato dai fantasmi della bisnonna Venera, delle nonne, delle zie. Terranova riesce a fondere passato e presente con una scrittura che impasta la memoria – individuale e collettiva – e la reinventa senza mai perdere la precisione, con il coraggio di andare contro quella che definisce “mitologia familiare”, l’insieme di storie che ci costituiscono, e riscriverla con la propria voce, con la propria verità.

Non è solo un racconto di famiglia, né un memoir travestito da romanzo, e non è neanche solo un thriller. È un’indagine nel cuore fragile delle donne e degli uomini, delle madri, dei padri, delle figlie e dei figli, nelle eredità invisibili, nei fantasmi che abitano le case anche dopo generazioni.

Al centro del libro c’è Venera, la bisnonna dell’autrice, internata nel manicomio Mandalari di Messina nei primi anni del Novecento dopo un aborto – dice la mitologia, per trovare una motivazione accettabile ed evitare il timore che la pazzia si tramandi con il sangue – o per essere stata la seconda moglie di un disertore (un granatiere?, un musicista?, un edicolante?), o ancora perché considerata una “strega”. Non è una figura romanzata: è una presenza, che emerge da un fascicolo d’archivio e diventa voce, carne, colpa tramandata. E accanto a lei c’è la narratrice, alter ego di Terranova, che attraversa la maternità come si attraversa una febbre.

Il tempo è caleidoscopico, non lineare. Alterna presente e passato, autobiografia e ricostruzione storica, analisi psichiatrica e lirismo, magie, detti popolari e ricordi costruiti, con una prosa densa e tagliente, che sa riflettere anche su se stessa e restituisce il peso delle parole che hanno potere di sciogliere, finalmente, certi nodi. È un romanzo che non si lascia leggere distrattamente, pretende attenzione, pretende presenza. Ma in cambio offre qualcosa di raro. Con una scrittura curata ed evocativa, ma mai compiaciuta, Terranova traccia immagini sempre concrete: i letti del manicomio, le carte d’archivio e le lettere degli internati, la pelle e il corpo delle madri, le stanze che odorano di latte e paura, i sentieri delle montagne da cui si cade, le cartomanti che leggono futuri sovrapposti, le navi che portano in America e ritorno.

Il tema della maternità impregna ogni pagina, e non è rassicurante. Terranova scrive della maternità come esplosione, come spaccatura, come enigma. Accompagnata dalle sue “co‑madri” – le amiche, le conoscenti, la madre, le zie – l’autrice restituisce un’immagine corale, comunitaria, franta ma potente, dell’esperienza della maternità. Cita Woolf (“C’è, nella maternità, uno strano potere”), e fa molto di più: smonta la figura della madre sacrificale e dà voce a chi, della maternità, ha sentito anche il limite, la solitudine, la paura di non esserci più. La testimonianza personale si fonde con il lavoro di scavo, che tocca la storia della psichiatria femminile in Italia, l’istituzionalizzazione della devianza, il trattamento delle donne che erano scomode, imprevedibili, “troppo”.

Non stupisce che il libro sia arrivato nella cinquina finalista del Premio Strega 2025, con 226 voti e un meritatissimo secondo posto. Dopo 🔗Trema la notte, con cui aveva già vinto il Vittorini nel 2022, Terranova è tornata con un’opera più matura, più radicale. Chi cerca trame nette o azione, forse resterà disorientato: ma chi ha voglia di perdersi in un testo che stratifica identità, epoche e memoria, qui troverà una delle esperienze narrative più intense dell’anno. Specialmente per chi ama le genealogie familiari, cerca voci femminili forti, e non ha paura di affrontare il dolore che si eredita senza saperlo.

È un libro che ti resta dentro, e continua a parlarti anche dopo l’ultima pagina.

Elena Fassio