Of Woman Born è il libro del dopo. Dopo gli anni settanta, quando Adrienne Rich, lascia il marito, quello che aveva sposato senza che suo padre, che aveva sempre cercato di non deludere, fosse questa volta d’accordo. Ha aspettato molto per dire basta. Un’infanzia da bambina prodigio che a quattro anni sa già leggere e scrivere e a sei compone la sua prima raccolta di poesie. La bambina che suona il piano seguendo gli insegnamenti della madre, ma quasi non gioca. Un lungo matrimonio in cui ognuno aveva avuto i suoi love affairs, l’interminabile tempo di crescere tre figli e pubblicare una raccolta di poesie dopo nove lunghi anni di silenzio senza averla davvero voluta pubblicare. L’interesse crescente per la teoria femminista è oramai anche la sua professione ed entra con forza nella sua poesia. E non c’è più nessun ostacolo per mostrare la sua omosessualità (”The Dream of a common language”), per essere radicalmente se stessa, e andare a vivere con la sua compagna, Michelle Cliff editrice alla Norton. E siccome tutto questo le è costato un estenuante lavoro interiore, questo dopo lei se lo prende nonostante tutto, nonostante, tra le altre cose, il suicidio del marito, avvenuto subito dopo la separazione.

Anche nella storia di Grazia Deledda c’è un dopo. La linea la traccia Elisabetta Rasy (Tre passioni): dopo il matrimonio con un continentale, quel mite e colto ingegnere mantovano, conosciuto a Cagliari in un salotto di amici di famiglia, l’unico che avrebbe sposato, perché lui avrebbe saputo fare ciò che a Deledda premeva forse più di tutto, rispettare la sua carriera di scrittrice. Dopo, quando lascia Nuoro per il continente. Questo dopo, Deledda se lo è preparato da tempo, ci ha dedicato lettere su lettere, scritte ai vari editori di riviste per farsi conoscere e un ostinato rifiuto di tutto quello che la madre, i fratelli e i parenti si aspettavano che facesse. Un rifiuto conficcato e segreto come l’olio che rubava per avere dei soldi da spendere. Un dopo fatto di lavoro, reticenza, disciplina, e sobrietà, e un pizzico di coquetterie, fino alle parole solenni pronunciate a Stoccolma quando riceve il Nobel. Per Rasy questo dopo ha la forma di un’urna -la sua scrittura ha la forma di un’urna- in cui è custodita, perfettamente custodita, la vita in Sardegna, nella casa con le mura di calce: il posto del prima. Un’urna o piuttosto un corpo in cui sono strette lei, sua madre, Francesca Cambuso, e le sorelle, strette in una casa a lutto dopo la morte del padre, strette contro le maledicenze delle zie che alla pubblicazione del primo racconto piovono in casa vergognate, facendosi portavoce della disapprovazione della comunità, quella che Deledda racconterà nella sua autofiction, Cosima. Strette eppure così distanti.

La madre, come tutti i romanzi di Deledda, è attraversato dal paesaggio e da tutti gli elementi che lo muovono e lo mutano. Quegli elementi che Deledda conosceva da appassionata botanica, che aveva calpestato e annusato e che porta con sé fino al Nobel. Qui ancora e soprattutto il vento. Il vento sospinge, rasserena o si porta via i personaggi, disegna le stradine con le quattro case e quel mondo, quello che ci sta raccontando Deledda, si chiude allo sbocco della valle, risucchiato come il vento, là dove convergono cielo e terra. Il vento si trascina via la notte e la madre che insegue il figlio fino alla casa sul ciglione che lo ha ingoiato. Il vento ha rubato le parole di bocca, e l’anima perché porta il diavolo. Ma abbatte anche la parete (la parete della menzogna e delle convenzioni) che separa le due stanze, quella del figlio e quella dove riposa la madre, quella della loro casa e quella della casa “del peccato” dove si è diretto il figlio. Questa è la tela, questo scorcio di Aar, paesino sardo, che emerge dal chiaroscuro. Il vecchio parroco del paese è morto tra tante chiacchiere sul suo conto e Paulo, il nuovo prete, e sua madre sono arrivati in questa piccola comunità, in questa parrocchia su cui sembra pesare una maledizione.

La madre di Paulo è lì, come intagliata nella pagina e nella notte, in quel gesto così terribilmente materno di sconforto, ripiegata sul suo grembo dove spesso rotolano giù i giorni assieme alle lacrime, a chiedersi cos’abbia fatto di male. È lì, in fondo al sentierolo di luce che il giovane prete ripercorre quando fa ritorno a casa, sconvolto dopo l’incontro clandestino con la donna che ama, Agnese, la donna di quella casa che lo ha ingoiato. Quando raggiunge la madre, Paulo le racconta una bugia inutile ma necessaria. Le scuse si accucciano e si fanno sempre più piccole in questo spazio domestico dove si ritrovano tutte le emozioni: il desiderio di essere protetti dalla propria madre, la rabbia perché è stata lei a volerlo per forza nel Seminario e poi di nuovo l’amore perché rinfacciarglielo non avrebbe alcun senso. E anche le emozioni della madre che in fondo al suo cuore sa cos’è successo ma ha bisogno di non crederci. E su questa scena dove le angosce e il dubbio passano per la carne, incombe il sempiterno imperativo “Bisogna essere uomini!”

Giù in fondo al ricordo e alla coscienza di Paulo c’è una ragazzina qualunque in un cortile che i ragazzi spiano e deridono arrampicati sul muro, c’è Marilena la donna che si prendeva cura di lui, ci sono la vergogna per la sua stessa madre che era una serva e la vocazione monastica che era stata piuttosto una missione. In fondo alla memoria, ci sono donne serve, ingravidate con un atto di violenza e di abbandono, donne che la vita ha deformato, donne perdute, prostitute che seguono gli uomini dentro l’uscio nero. In fondo c’è la consapevolezza strisciante che il male  non sta in queste donne da “esorcizzare”, ma semplicemente dentro di lui. E assieme a questa consapevolezza anche una specie di empatia, l’unica davvero cristiana, verso Agnese, che si è ritirata dalla comunità, o per la giovane ragazzina che si dibatte mente la madre la trascina in parrocchia, contro la sua volontà, per farla esorcizzare (e lui neppure per un attimo crede alla superstizione). In fondo al vicolo, sta la sua ignoranza di uomo e quella stupida veste di guerriero. Lì, in fondo dove tutto però ricomincia maledettamente sempre dallo stesso punto.

Il racconto La madre è seguito da una postfazione di D. H. Lawrence, che aveva presentato la traduzione inglese. Che oggi il racconto di Deledda abbia ancora bisogno di essere accompagnato dalle parole dello scrittore inglese ha almeno o solo un preziosissimo senso: sottolineare proprio quella distanza di Deledda -una scrittrice che con determinazione, quasi ossessione, ha deciso da sempre di fare della scrittura il suo mestiere (a diciassette anni comincia a pubblicare)- e quell’establishment, di cui Lawrence era degno rappresentante, contro la cui stessa ottusa determinazione, Deledda lotta in modo sotterraneo, e infaticabile, attraverso la scrittura.

Per Lawrence -che sembra quasi nutrire un interesse antropologico per l’esemplare in questione, trattandosi di una scrittrice che proviene da un mondo remoto, anzi remotissimo, arcaico, in cui si parla addirittura un’altra lingua- Deledda non è “un genio di prima classe”, non è capace di “addentrarsi” (analizzare) -come del resto potrebbe fare solo “un grande genio”- nelle passioni e negli istinti che porta in scena nelle sue novelle. Deledda, questo sembra l’unico pregio che le riconosce”, si ferma alla rappresentazione (descrizione) degli istinti di un popolo “primitivo”, quello sardo, di quella società feudale e barbara. Per Lawrence poi Deledda compie un altro errore: non è capace di svolgere fino in fondo la sua narrazione. Si “distrae” dal tema scelto, fa confusione con il suo stesso libro, è indecisa rispetto al personaggio della madre. Il titolo scelto dalla scrittrice per la sua opera del resto, continua Lawrence, non sarebbe giustificato visto che la madre non ne sarebbe la vera protagonista. Ma (per fortuna), “la poca chiarezza mentale” si spiega per l’inesperienza della Deledda. Forse l’unico appunto degno di nota nel testo di Lawrence è l’intuizione di comparare il paesaggio di Deledda alle Cime tempestose di una Brontë. Gotica o romantica più che verista.

La forza di questo romanzo è proprio questo dubitare che Lawrence schernisce. Perché Deledda vuole raccontare ciò che ci accade davvero e ci contraddistingue davvero: la lotta interna, il dubbio, le sicurezze che crollano. Insomma tutto quello che in una cultura che ragiona per antitesi fa parte dell’altro polo. La madre frena il figlio (senza convinzione perché percepisce, nonostante sia una povera analfabeta, l’assurdità di quell’imposizione, di quel codice che lo vuole “puro”) e lo consola nel suo tormento e nel suo smarrimento; il figlio  prova un sentimento ambivalente di ripugnanza ed esaltazione, di gratitudine e di fuga. Al centro del romanzo c’è proprio la terribile scissione a cui quella cultura di cui siamo figli ha costretto la donna, e la madre, riflettendosi negativamente nel rapporto con i figli. Il rapporto madre-figlio, rapporto umano fondamentale, ricorda Adrienne Rich, è stato oggetto di violenza.

Su questo scambio madre figlio, ritorno ad Adrienne Rich e quello che per me resta il cuore del suo saggio sempre contemporaneo Of Woman Born. Non solo l’analisi lucida di tutte le implicazioni e le ragioni del sistema patriarcale che vale sempre la pena di tenere a mente: la possessività emotiva, la percezione diversa dell’adulterio femminile (da punire anche crudelmente) e di tutta la sessualità femminile, l’illegittimità del bambino nato fuori del matrimonio, la dipendenza economica, i lavori domestici non pagati, la sottomissione all’autorità maschile, la codificazione e la perpetuazione dei ruoli eterosessuali. Ma soprattutto l’accento su quel sottile passaggio, quasi trascurabile: esigere dalla donna di preparare i figli ad entrare senza ribellioni e disadattamenti in quel sistema, di “tagliare” quel famoso cordone ombelicale.

Rich ricorda le vacanze in cui il marito era assente e lei stava con i suoi figli senza bisogno di rispettare programmi, sonnellini, e pasti ad ore fisse, senza dover mandare a letto presto i bambini per lasciare liberi gli adulti. Sono gli anni sessanta. “Stavamo alzati la sera a guardare pipistrelli, stelle e lucciole”. In quelle serate lei non si sente stanca, lavora fino al mattino, come quando era all’università, e si sente padrona della sua vita. È lo spazio che si sottrae “alle regole”, quello in cui ti hanno fatto credere che se fai così sei una cattiva madre. La dottrina freudiana esige dalla madre di allontanarsi dal figlio, di non “sedurlo” perché altrimenti lo castrerebbe (argomento contestato da diverse  psicoanaliste che sono state espulse dall’istituzione prestigiosa di turno). Il prezzo da pagare per risolvere il complesso di Edipo è riconoscere la supremazia della legge patriarcale. Pena la paura di alienare il figlio e i successivi sensi di colpa che sono una delle più efficaci forme di controllo sociale sulla donna.

Rich chiede che un figlio possa restare “figlio della madre”, of woman born appunto, che ovviamente non significa mantenere un atteggiamento protettivo, materno, e, dal lato del figlio, dipendente, infantile o necessariamente “femminilizzato”. Anzi, modificare le interferenze e le pressioni del patriarcato che impediscono alla donna di appropriarsi del proprio tempo, del proprio lavoro, del proprio corpo, di farne un luogo felice e sano (aggiungerebbe Maraini). E qui di poter svolgere per davvero quel filo ininterrotto di amore, quel filo che è stato anche un cordone, non quello istituzionalizzato, dell’impotenza, della rabbia e dei sacrifici, ma di approvazione, identificazione, coraggio. Un vincolo da cui gli uomini non devono autoescludersi o giocare ad essere stati esclusi, per scrollarsi di dosso ogni responsabilità (affettiva), ma di cui dovrebbero prendersi cura. Entrambi, uomo e donna disposti a modificare e trasformare il loro rapporto con l’universo. Entrambi grembo.

Deledda ha compiuto quel passo che poi continueranno a compiere le scrittrici che verranno dopo di lei. La sua coscienza di genere -che è la scelta (anche politica) precisa di raccontare la sua storia di donna, resa appena più tragica dal doppio isolamento, di donna (e quindi diversa, altro nel sistema patriarcale) e di isolana- è piena. Anche se sul piano letterario, le sue eroine si muovono ancora in spazi marginali, nella negazione della femminilità (“defeminization”), quasi di mutilazione-castrazione (La chiesa della solitudine). Ma è un passo necessario, per ora l’unico possibile. Un femminismo dunque che non sa ancora dove collocarsi in una cultura che vuole le donne stupide ed asservite ad un ciclo, e gli uomini detentori del potere e dell’indipendenza. O che può solo collocarsi negando l’appartenenza a quel genere donna (quella costruita dal sistema patriarcale) e identificandosi piuttosto con l’altro sesso. Laddove il femminismo contemporaneo cerca di farci uscire da questo vicolo cieco dove identità di genere, uguaglianza e indipendenza si confondono secondo un ottuso e ripetitivo sistema antinomico, in un corto circuito perverso in cui o sei dentro oppure sei fuori.

Non c’è contraddizione tra la donna raccontata da Deledda che nonostante la sua “emancipazione” -come accade a Cosima o a Concezione- resta vittima della società patriarcale: una figura comunque marginale, o appena abbozzata come l’Agnese di questo racconto, che si è autoesiliata. “Deledda’s failure to consciusly take note of and articulate the role played by gender in the unfolding of her narrative”, affermano i “gender studies” sulla Deledda (“Women as Outlaw: Grazia Deledda and the politics of gender” di Susan Briziarelli, per citarne uno). Eppure Deledda vuole mostrare precisamente questo. Ci sta mostrando appunto quanto le donne erano e sono vittime. Agnese è umiliata. Paulo le preme le mani sulla bocca per non farla parlare (gesto che non siamo ancora riusciti a debellare), prima di lasciarla sola nel suo dolore. Più che la marginalità, Deledda sta ritraendo qualcosa di più reale, con cui bisogna in qualche modo ancora fare i conti. Deledda racconta l’immobilità. L’immobilità della postura di Paulo che ora ha solo paura che Agnese lo smascheri di fronte a tutti, in una mattina in cui il vento ha smesso di soffiare, e lui si avvia verso la chiesa per celebrare la messa. L’immobilità di Agnese che vorrebbe parlare ma resta bloccata, impigliata nelle maglie del passato, che non le permettono di parlare. E la madre di Paulo ancora più immobile della loro immobilità, con la bocca ancora più stretta (figura femminile che non ha nessuna voce). Tra loro è passato appena un soffio, che è stato di morte. Eppure la scrittura di Deledda avanza, il finale resta aperto. Sulla disgrazia che è accaduta nella finta quiete della chiesa, su questa superficie congelata, gli occhi del prete e di Agnese tornano a muoversi e ad incontrarsi. E le parole, assieme ai destini, si mettono in moto, girano l’angolo, compiono una svolta.

Silvia Acierno

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