Irriducibile, saldo sulle proprie gambe, severo: Franco Fortini si è imposto come una figura ben definita nel panorama letterario del secondo Novecento, un intellettuale che ha saputo imprimere la propria intelligenza sulla pagina senza scendere a compromessi, intransigente e fedele ai capisaldi del proprio pensiero.

Non stupisce che una personalità dal profilo così netto e rilevato abbia rivolto i propri sforzi intellettuali principalmente verso la poesia e la saggistica: due forme in qualche modo dirette, non mediate, nelle quali le idee di chi scrive sono tutte lì, sulla pagina, tradotte in ragionamenti o sensazioni. Esistono però alcuni racconti fortiniani (di certo periferici, ma interessanti), in cui le riflessioni sono filtrate attraverso una costruzione narrativa; in questi casi, però, i personaggi sono specchi dell’autore, giovani studenti corrucciati e pensosi, inclini alla riflessione e al rovello interiore: in un certo senso sono già, a loro volta, soggetti lirici e voci ragionanti, saggistiche.

Tra queste prove si colloca il breve Spiaggia di settembre, che accoglie il lettore in un bosco di sentore dannunziano, in cui due amanti camminano tra piante che, un po’ shakespearianamente, dimenticano il proprio nome, ma mantengono la loro natura libera, fresca: «“Ognuna di queste piante ha il suo nome” – pensavo – così come noi due abbiamo il nostro; eppure ne facciamo a meno, liberi come siamo: è bello questo». L’idillio amoroso adolescenziale è però percorso da un brivido inquietante quando i giovani giungono, verso sera, a una spiaggia deserta. Il mare vuoto, urlante e accavallato, disorienta i due dopo la placidità della giornata trascorsa: gli innamorati si ritraggono e tornano alla città, alle «cose note agli uomini». Il protagonista rimane però profondamente turbato, perché dietro al fragore marino ha letto un monito: «mi è parso di aver tradito o piuttosto, dimenticato qualcosa, e che proprio me lo ricordassero quelle onde», confessa.

Qui, come negli altri racconti scritti in questo torno di anni (1934-38), non viene definito ulteriormente il contenuto del messaggio, ma uno sguardo alla biografia dell’autore può essere rivelatore. La tradizione religiosa della famiglia di Fortini è piuttosto eterogenea: nato da madre cattolica e padre ebreo, non praticanti, subisce le conseguenze delle leggi razziali alla fine degli anni Trenta, periodo in cui attraversa contemporaneamente una crisi religiosa personale. Alcune letture compiute nel corso di questo decennio (tra cui Carlo Michelstaedter, pensatore goriziano di inizio secolo, e Søren Kierkegaard), gli fanno percepire con sempre maggiore tormento la separazione tra la vita terrena – piacevole, ma falsa – e la dimensione ultraterrena, vera, abitata da un Dio profondamente separato e altro rispetto a essa. Per questo motivo, nei racconti, i momenti di felicità passati con ragazze innamorate sono inquinati da un richiamo severo, che – ora si capisce – proviene da uno stimolo religioso: nel 1939, infatti, il giovane Fortini si battezzerà presso la chiesa valdese, allontanandosi da entrambe le tradizioni dei genitori e cominciando a definire una posizione propria da cui osservare e parlare, senza compromessi con le opinioni prevalenti.

Questa salda autonomia rimane una cifra fortiniana lungo tutto il suo percorso intellettuale, non solo in campo religioso. Anzi, la guerra mondiale e il resto degli anni Quaranta vedranno un progressivo allontanamento dalla fede e uno speculare avvicinamento all’impegno politico presso il Partito socialista: ancora una volta, trova una posizione “laterale”, che gli permette una maggiore libertà nel dialogo interno alla sinistra italiana, con quelli che considera i suoi veri interlocutori, i comunisti. La tensione verticale e religiosa dei primi anni si trasforma così in spinta orizzontale verso un preciso obiettivo politico: l’avvicinamento verso un «futuro di giustizia e benessere nel socialismo» (da Dieci inverni, insieme di interventi che coprono lo spazio di un decennio, dal 1947 al 1957).

In questi anni la produzione narrativa di Fortini conta risultati più sporadici, rimasti perlopiù inediti o pubblicati molti anni dopo. Risalente a questa fase è il Racconto fiorentino (1955), che torna nella città natale dell’autore e al periodo prebellico, riprendendo anche forme e argomenti delle narrazioni dell’esordio, di vent’anni precedente. Ora, però, come si può immaginare, ci si trova di fronte a una prova più matura e complessa: il punto di vista unico del giovane pensante di Spiaggia di settembre viene qui moltiplicato, rifratto tra più personaggi. Da un lato c’è Carlo, figura attraverso cui Fortini accusa il sé giovane: è uno studente universitario la cui blanda opposizione al fascismo rimane relegata ai caffè letterari, dilaniato tra un’attrazione statica verso il vizio e il desiderio di azione; dall’altra parte si trova Raniero, che, prigioniero di un auto-imposto senso di minorità e insuccesso, ha deciso di credere negli ideali fascisti e di votare la propria speranza perduta alla guerra incombente, nonostante sia consapevole dell’insicurezza e della falsità nascoste dietro la retorica di regime. Le ultime righe del racconto ci anticipano che «non sarebbe sopravvissuto» al conflitto: tutto ciò che si può fare è chiedergli perdono, «come si fa con i morti». Il suo percorso autodistruttivo è, infatti, la testimonianza di una sofferenza solitaria che non può essere accettata da coloro che lottano per una società più giusta, che vogliono «nell’altrui la propria salute», per citare la premessa ad Agonia di Natale (1948), unico romanzo dell’autore.

«Ora, son fatto come uno che aspetti la notte su quella spiaggia», dichiara il protagonista di Spiaggia di settembre, ricordando quella sera fatidica in riva al mare e l’occulto messaggio che ne ha ricavato. In modo simile, ma differente, Fortini avverte negli anni con sempre maggiore chiarezza l’obiettivo davanti a sé, che guida ininterrottamente la sua attività culturale: non aspettando, ma concretamente lavorando in ogni sua pagina, l’autore si incammina verso la meta senza temerne la portata, consapevole che la strada verso l’altrui e propria salvezza (politica e sociale) ne è già una prima realizzazione.

Dario Giolito

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