“I vecchi sono modesti, disse Philip. Tendono  a non sopravvivere l’uno all’altro.”

Quando ti ritrovi a leggere incipit del genere capisci di essere di fronte a una scrittrice, che con quattordici parole ben distese fra maiuscola e punto riesce a catturare la tua attenzione.

Lei è Grace Paley, io l’ho scoperta grazie a Più tardi nel pomeriggio.

Grace nata Goodside, 1922-2007, famiglia ebra di origine ucraina, diventata Paley grazie al suo primo marito, Jess, direttore della fotografia, è una regina delle short stories, o dell’arte del racconto.

Lungo le pagine di questa raccolta Einaudi, tradotta in maniera superba da Laura Noulian, Paley sfoggia tutte le qualità che ritengo indispensabili in una scrittrice, e non uso scrittrice per sottolineare solo il genere.

Uso scrittrice per indicare quella particolare e complessa visione del mondo, tipica ed esclusiva di chi è donna, femmina: la narrazione femminile, che non è aggettivare, ma canonizzare.

Le protagoniste dei racconti di Paley sono donne che hanno visto e vedono il mondo, di continuo.

Da una finestra di un palazzo del Bronx di New York, da un parco cittadino, oltre la recinzione di un cortile scolastico, di fronte a un’amica in punto di morte, di fronte a una madre molto vicina alla morte.

Sono donne sole, donne con figli e figlie, donne senza marito con figli e figlie, donne con più mariti, donne senza mariti ma con un paio di amanti, donne che sono ancora una volta figlie.

L’attivismo di Paley per i movimenti pacifisti e femministi ritorna anche in queste storie brevi.

Le sue protagoniste sono politicizzate, nate dalla Depressione, manganellate ai picchetti contro la Guerra nel Vietnam, socialiste, comuniste, viaggiatrici in Paesi utopici e sogni utopici, come la Cina.

Sono donne coraggiose, dai bambini dispersi, risorte da drammi che portano alla pazzia.

Sono donne che litigano nell’amicizia, si ostinano nel dibattito, nel contradditorio, sostenitrici nostalgiche di quell’autocoscienza femminista che mette tutto in discussione, di continuo, anche loro stesse.

Le vedo attorno a un tavolo, in una sala da pranzo, a festeggiare quel cinquantesimo compleanno, attorniate da torte, appunti su quello che è stato e che potrebbe essere, diapositive, famiglie che evolvono, si allargano, sostenute da questo gineceo.

Paley è cura dei dettagli, di una città in trasformazione, da immondizia a Grande Metropoli.

Paley sono i corpi che si trasformano, in disfacimento, vecchi, morti, fanciulleschi dalle ginocchia ammaccate.

Paley è abile prestigiatrice di quell’umorismo nato da uno sterminio di massa, ironico da dar fastidio, letale da dover sogghignare, pur non volendo.

In queste pagine, anche se l’autrice lo ha smentito più volte, Faith, il suo alter ego, di racconto in racconto, ci porta in questa società  popolare, di quartieri popolari, di pensieri popolari e di rivolta, di rivoluzione attorno a se stessi.

Amiche

“Per metterci a nostro agio, per acquietare i nostri cuori mentre moriva, la nostra cara amica Selena disse, La vita, dopotutto, non è stata un orrore uniforme – sapete, ho passato davvero molti anni meravigliosi con lei.

Indicò una bambina che si sporgeva da un ritratto appeso alla parete – lunghi capelli castani, grembiule bianco, testa e spalle in avanti.

Che entusiasmo, disse Susan. Ann chiuse gli occhi.

Sulla stessa parete c’era la foto di tre bambine piccole nel cortile di una scuola. Discutevano animatamente; si tenevano per mano. Proprio in mezzo al tavolino del salotto, dentro una cornice, fra colori autunnali, una bella ragazza di diciotto anni sedeva su un enorme cavallo – distaccata, indifferente, una cavallerizza. Una notte questa ragazza, la figlia di Selena, venne trovata in una pensione di una città lontana, morta. Telefonò la polizia. Dissero, lei ha una figlia di nome Abby?

Paley riesce a mescolare morte a torte ai mirtilli, e anche a farvele assaggiare.

Buona lettura.

Francesca Piovesan