“Io non voglio che le cose cambino” dice un piccolo Anakin Skywalker a sua madre Smhi il giorno in cui viene liberato dalla schiavitù, per seguire la strada che lo porterà a diventare uno dei personaggi più iconici della saga di Star Wars. In quella frase, apparentemente così semplice, è racchiusa tutta la tragedia di un essere umano che non riuscirà mai ad andare oltre le proprie paure, finendo per esserne consumato. Il protagonista de Il peso dell’assenza, romanzo di esordio di Gianluigi Bodi, non è un cavaliere Jedi né un eroe di altri mondi: è una persona qualsiasi che, in un periodo personale particolarmente difficile, si confronta con le proprie paure e i propri fantasmi. Sullo sfondo di una Venezia crepuscolare e misteriosa, che tanto mi ha ricordato le atmosfere inquietanti di A Venezia… un dicembre rosso shocking, l’autore ci conduce sulle tracce di un uomo di cui non conosciamo il nome che da Londra, dove vive e lavora, è tornato nella propria città natia per ritrovare se stesso. Silvia, la donna che amava, se n’è andata, lasciandolo senza una spiegazione, sparendo nel nulla. Quel viaggio, che tante volte si erano ripromessi di fare insieme e in cui è riposta una speranza indefinita e disperata, si trasforma in un pellegrinaggio dolente e a tratti onirico, dentro un labirinto senza uscita, popolato da persone, conosciute e non, dagli abitanti di Venezia che si muovono con lui fra le calli, dagli immancabili turisti e dai fantasmi del passato, che affiorano tra un ricordo e l’altro. C’è Edoardo, suo compagno di università che lo ospita insieme alla moglie Eva e alla piccola Lucilla, nata da pochi mesi; c’è il professor Bembo, suo vecchio insegnante di educazione fisica al liceo e infine c’è Barrante, un clown dall’aspetto e dai comportamenti poco rassicuranti, che si esibisce in strada e sembra averlo preso di mira. Su tutto questo grava il peso dell’assenza di Silvia e il dolore che questo vuoto porta con sé: nel suo peregrinare quotidiano, senza una meta precisa, il protagonista è all’affannosa ricerca di un senso che alla fine sembra non esistere e che invece si manifesta, nelle ultime struggenti pagine di questo breve e straordinario romanzo.
“Mi sembra di capire il ruolo del tempo nei nostri ricordi, quella sua capacità ineludibile di apporre filtri e modificare le cose che vediamo con gli occhi della nostra memoria. Ma soprattutto mi sembra di riuscire a dare un senso a tutte le discrepanze, a quelle minuscole differenze che non sempre riusciamo a mettere a fuoco. (…) Sta lì, forse, in quello spazio tra ciò che ricordavamo e e ciò che si presenta ai nostri occhi (…) l’essenza del tempo che passa e delle cose che cambiano. (…) sta lì l’essenza delle cose che ci mancano, che non possiamo più fare nostre.” È in queste righe, tra le più significative e intense che mi sia capitato di leggere negli ultimi anni, che Gianluigi sembra uscire per un’istante dalle calli immerse nella nebbia e, con la stessa voce avvolgente con cui ha accompagnato il lettore durante tutto il racconto, ci restituisce il senso di questa storia e, in fondo, il senso della nostra esistenza, in relazione al tempo che passa e tutto trasforma: perché le cose, volenti o nolenti, cambiano comunque ed essere dannati non è sempre una libera scelta.
Il peso dell’assenza è uscito il 26 aprile scorso per Les Flâneurs Edizioni, grazie alla lungimiranza e al lavoro appassionato di Annachiara Biancardino e Alessio Rega.
Edoardo Ghiglieno
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