“Tutto finisce sempre dal principio e nella fine trova il suo principio. Un circolo magico e crudele insieme”.

Un circolo fatto di continue morti e rinascite, di crescendi e decrescendi, di incanti e di dolori, quella sensazione di vuoto allo stomaco che la giostra ti fa provare nel momento della discesa, in cui la percezione della forza di gravità diminuisce, regalandoti, anche solo per un attimo, l’impressione di svincolarti dalla terra, di non avere più un peso materiale e di essere attratto verso l’alto. La vita di Antonin era una vita fatta di abissi, di fondi paludosi, di foglie secche calpestate e di passaggi smarriti, ma proprio da quella terra umida e calda traevano linfa i suoi desideri di vita, il suo meraviglioso afflato, quell’intruglio discorde ma inscindibile che lo hanno reso un artista eclettico e sui generis. Quello stesso stridore generato dal calpestio delle foglie si armonizzava con il suono candido della voce di mamma Euphrasie quando pronunciava il nome Nanaqui, vezzeggiativo con cui si era soliti chiamare Antonin in famiglia.

Attraverso la sua penna cristallina e profonda, perfettamente calibrata ma visionaria, l’autrice Giuditta Perriera prende delicatamente per mano il lettore, lo accompagna negli intricati ma affascinanti meandri della vita di Antonin Artaud, drammaturgo, saggista e attore teatrale francese, figura divergente e a tratti folle, nota per aver tratteggiato le idee fondanti del Teatro della Crudeltà. Un teatro “basato sui segni e non più sulle parole” che s’ispira alla fisicità rituale della spigolosa danza balinese e invade lo spirito e la carne, fondendo gesto, luce, movimento e parola.

La cosa più urgente non mi sembra dunque difendere una cultura, la cui esistenza non ha mai salvato nessuno dall’ansia di vivere meglio e di avere fame, ma estrarre da ciò che chiamiamo cultura, delle idee la cui forza di vita sia pari a quella della fame.

L’afflato magico di Nanaqui era un rito liberatorio, una ribellione catartica perché in grado di smuovere un sentire profondo e condiviso. Il suo era un urlo viscerale, la folle lucidità necessaria come la fame che favorisce lo slancio verso l’ignoto e la ricerca di un “magico e insieme reale modo di rinascere”. E Il suono del candore altro non è che un’ulteriore possibilità di rinascita che Perriera ha regalato ad Antonin. L’autrice, mediante l’espediente narrativo della corrispondenza epistolare impossibile, dona al drammaturgo l’ultima e l’unica possibilità di parlare con la sorellina Germaine, morta a soli sette mesi.

Mio bellissimo Antonin, c’è così tanto buio qui e lì. E tu perfori coi tuoi lampi di dolore il sordo limbo in cui mi trovo. Sento che ti abbraccerei fino a scioglierci in una sorgente di vita (…) Caro Antonin, dove mi trovo è tutto nebuloso e mi arrivano i suoni sconnessi di altre piccole anime come la mia.

Antonin sperimentò l’ineluttabilità della tragica perdita a soli nove anni. Eppure, il suo piccolo e caleidoscopico cuore aveva imparato a pulsare aritmicamente fin da quando aveva cinque anni, a causa di un’acuta meningite che gli procurò degli strascichi inevitabili come tic facciali e balbuzie.

Antonin, tu hai fatto della tua follia e del tuo incessante dolore fisico e mentale una fonte di straordinaria linfa del possibile. Un mantra per le anime sperdute in cerca di sé. Una magica canzone dal suono distorto e al tempo stesso espanso.

Non bastarono elettroshock, istituti di cura, la frattura della nona vertebra dorsale, continue sofferenze fisiche e mentali a spegnere la febbricitante e incontenibile voglia di conoscere e conoscersi, di perdersi e ritrovarsi. Antonin traduceva la sua balbuzie in una scrittura fluente e tersa. La scrittura riusciva a “purgare la peste dei suoi nervi”, a disambiguare il suo essere così tormentato. La sua era “una gravidanza dello spirito” capace di dare vita a un “Io scomposto ma autentico”. E fu proprio quell’autenticità che gli permise di spiegare le ali, di urlare la sua ribellione, di non sposare l’adesione al partito comunista francese di quello stesso movimento surrealista con cui inizialmente collaborò con tanto ardore, nel tentativo di inseguire la sua “utopica convinzione di uno spirito libero e appassionato” non ammaliato dal potere. Fu quell’autenticità che gli permise di lanciare il “dardo infuocato” che si portava dentro, di dipingere e disegnare il suo “mondo invisibile”. Un mondo di cui la piccola Germaine non ha conosciuto gli odori, i sapori, i graffi e le carezze.

Sai, Antonin, non essendo vissuta abbastanza è un po’ come se non fossi mai nata. E allora, in mezzo a questa polvere scintillante di nubi, l’unico luogo che io abbia mai conosciuto, osservare come tu abbia spezzato la tua vita migliaia di volte e migliaia di volte ricomposta, mi fa credere che anche qui dove mi trovo, sia possibile acchiappare le nuvole e riportarle al sole. Trasformare il gelo in calore, sanguinare e sentirne il dolore.

La bimba che non poté mai essere donna, madre, amante può colmare la sua eterna mancanza solo immergendosi nel riflesso del fratello. Uno sfregamento di anime così intimo e commovente quanto impraticabile e illusorio che scuote il lettore, fa riflettere sulla precarietà umana e accende un disperato attaccamento alla vita, ti abbraccia pagina dopo pagina fino a renderti pienamente partecipe di una relazione fraterna simbiotica e per la vita.

Illustrazione di Pia Valentinis

L’itinerario rapsodico nella vita dell’artista francese, che vede il susseguirsi dei più significativi e solcanti frammenti della sua esistenza, è avvalorato dalle suggestive illustrazioni di Pia Valentinis. Per ogni capitolo, le parole e le illustrazioni si intrecciano in una scrittura visiva che diventa corale e rappresentativa delle pieghe più riposte dell’anima. Uno scambio di battute silente ma efficace tra le parole e le immagini che non ha bisogno di essere esplicitato. Una mostra tra i paesaggi dello spirito capace di colpire i sensi del lettore-ascoltatore-spettatore.

Scrittura, voce e disegno erano profondamente connessi per te, come un corpo che non può fare a meno della sua anima messa a nudo. E, come in un rito magico, ti riappropriasti del tuo nome (…) Ora sto danzando con te, anche senza di te, Antonin. E ripeto il tuo nome e sento il respiro corto della fatica a cantare in mezzo alle nuvole. A volte leggere, altre dense e appiccicose (…)

Com’è dolcemente crudele la tua spinta a un’adesione intima e profonda alla vita!

Claudia Melcarne

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