Cominciamo dalla fine, e cioè dal tuo ultimo libro pubblicato, cominciamo da Soffio. Sai che penso che sia uno dei migliori romanzi italiani usciti negli ultimi anni, soprattutto per l’equilibro della scrittura e la malia che sei riuscito a creare. Il tuo primo libro però lo pubblichi nel 2009, Non resterà la notte (Marsilio 2009), poi passano 12 anni e nel 2021 esce Soffio. È molto tempo, e in quest’epoca di frenesia dove tutti sembrano voler pubblicare un libro l’anno mi fa pensare, perché è una cosa da notare e che io apprezzo.

E quindi la domanda è: mi racconti cosa è successo in questi dodici anni anni e cosa ti ha portato a scrivere e pubblicare Soffio. Da dove nasce l’idea, l’esigenza, la volontà?

Diciamo che nel mezzo c’è stato un altro romanzo scritto a quattro mani con mio fratello, pubblicato da una casa editrice fiorentina, che si intitola Victor e La Leggenda della Polvere, una storia tra fantascienza e fantasy. Scritto quasi per gioco con mio fratello, che l’ha arricchito con illustrazioni bellissime. Un’eredità di questa collaborazione sta proprio nella copertina di Soffio e nella mappa che lui ha disegnato. Due cose a cui io tengo moltissimo, perché secondo me è riuscito a cogliere in maniera perfetta lo spirito visivo di quel racconto. Mio fratello è un artista, ha un atelier a fianco a Palazzo Pitti, a Firenze. Un posto magico. E con lui c’è un’intesa estetica e culturale fortissima.

Nei dodici anni che sono intercorsi tra i due romanzi firmati solo da me ci sono stati anni di riflessione su cosa volevo dalla scrittura e soprattutto su quale poteva essere la dimensione narrativa che poteva esprimere meglio quello che avevo intenzione di dire. Sono dodici anni in cui senza più esitazioni mi sono orientato verso una scrittura che volesse sfondare il recinto asfittico del realismo.

Poi c’è stata la nascita della mia seconda figlia, e vari altri cambiamenti importanti, in questi 12 anni.

La copertina di Soffio è meravigliosa, senza dubbio, concordo. Mi ha attratto subito. Quindi cercavi anche una nuova voce per sfondare quel realismo che definisci asfittico. E c’è stato un momento preciso in cui hai sentito che questa storia nasceva, che prendeva vita proprio, come il pneuma che dona la vita alle cose che racconti, oppure la cosa è stata più complicata?

L’idea nasce da tante cose diverse, tra cui il desiderio di ritornare al momento della mia infanzia e in particolare ai 12 anni, che sono l’età in cui la materia fluida, magmatica e anche instabile dell’anima si solidifica, prende una forma e si dimentica di sé, perde il pensiero magico. Volevo anche recuperare le figure e le realtà che in quel periodo della vita possono dare un’ impronta a questa “solidificazione” del carattere, che non sono solo i genitori ma può essere il contesto della strada in cui si vive e certe amicizie scolastiche. Volevo ritornare a quel momento di passaggio che vedevo nelle mie figlie. Volevo raccontare attraverso qualcosa di straordinario, qualcosa che aprisse una prospettiva completamente anomala, bizzarra. Volevo raccontare attraverso fenomeni inspiegabili che, grazie alla loro forza, mettessero ancora più a nudo le anime dei personaggi, i loro mondi interiori, le loro relazioni, che poi è quello che mi interessa di più, sia come lettore sia come scrittore.

In realtà la prima idea del romanzo era molto diversa e mi ci sono voluti anni per arrivare alla forma che poi ha assunto, perché inizialmente la mia prima immagine era quella di una fabbrica di anime, di un luogo dove le anime, intese quasi come fantasmi, non solo lavoravano ma lavoravano per creare altre anime. Un’ “industria di spettri”. In questa industria c’era questa figura che governava tutta la catena di montaggio, che era questo uomo capace di trarre l’anima delle cose e delle persone e infonderla in altre cose e in altre persone. Poi nel corso del tempo questa prima immagine si è trasformata da una storia fondamentalmente di adulti a quella che avrebbe potuto essere l’infanzia di questo personaggio dotato di quel poter soprannaturale. Per me era più convincente mettere uno sguardo esterno che raccontasse questo personaggio, e quello sguardo esterno in qualche modo poteva essere un altro personaggio molto più vicino a me, molto più simile a me all’età di dodici anni.

Ecco, hai parlato di sguardo… sbaglio se dico che oltre quello che il titolo ben esplicita, Soffio è un romanzo sul “guardare”. Intendo che io ho molto sentito il guardare di Sebastiano dalle finestre, quel guardarsi dai balconi con Margherita, quello sguardo di Sebastiano anche sui genitori e sulle loro riunioni con l’amico Basetta mentre tramano le loro cose. Ho sentito lo sguardo molto presente, quasi come una voce narrante se capisci cosa intendo. È dovuto all’età dei protagonisti secondo te, al loro modo curioso di vedere il mondo rispetto agli adulti o ad altro che dicevi prima o forse sto esagerando io?

Sicuramente la percezione visiva è molto importante. Mi colpisce questa osservazione e mi fa pensare, perché il mio primo romanzo, Non resterà la notte è la storia di una ragazza che improvvisamente perde la vista, in un contesto e in un momento molto particolari.

Sicuramente la mia formazione di narratore ha molto a che fare con l’immagine, il fumetto (che è presente anche in Soffio), e anche il cinema.

Se avessi avuto un decimo del talento grafico e pittorico di mio fratello, mi sarebbe piaciuto molto creare fumetti. Ma purtroppo il disegno non fa per me.

Per me raccontare i dodicenni ha significato soprattutto ritrovare, o almeno provare in tutti i modi a ritrovare quel punto di vista, fare un sopralluogo in quei tempi lontani e tornare a parlare con quei ragazzini. Insisto sui 12 anni perché credo che sia uno spartiacque esistenziale.

Io, per esempio, dentro di me, da bambino, ero convinto, sicuro, che se mi ci fossi messo d’impegno, con pazienza, avrei potuto imparare a volare. Me la sentivo davvero dentro questa cosa, poi l’ho persa completamente.

A proposito di fumetti…. nel tuo romanzo c’è un un quartiere mondo per i protagonisti, che poi si condensa ancor di più forse in un palazzone mondo, con quei balconi, quei corridoi, quelle stanze in cui si ritrovano e da cui scappano anche con la mente. Non c’entra niente con la tua storia, sia per atmosfera sia per storia in se, ma qualcosa di quel mondo lì mi ha fatto pensare a Sogni di bambini di Otomo, ti è capitato di leggerlo, significa qualcosa per te?

So di che si tratta ma non l’ho mai letto. Come per molti ragazzini degli anni settanta, hanno contato molto nella formazione del mio immaginario i cartoni giapponesi, ma, a parte casi molto particolari e relativi tra l’altro a letture fatte da adulto, non sono un grande lettore di manga.

Ho letto Nagabe, The girl from the other side, affascinante, ma anche lontano graficamente e narrativamente dalla maggior parte dei manga.

A proposito di affinità con la cultura giapponese, di sicuro ci sono autori, come Yoko Ogawa, Takuji Ichikawa, o il famosissimo Haruki Murakami che per me come lettore e come scrittore sono stati e sono importanti.

Peccato non avere mai avuto la forza d’animo di imparare a leggerli in lingua originale.

Io sono un appassionato di anime e manga ancora oggi, ma di quelli vecchia scuola diciamo, altri tratti, e negli anime poi altri colori, altra luce . Poi vabbe’, sui fumetti sappiamo dove andiamo a parare: Sandman etc etc… no?

Sandman per me è un rammarico. Perché io e mio fratello lo comprammo in edicola nei primi anni novanta, quando uscì. Era straordinario sotto ogni punto di vista, dalle copertine di Dave McKean alle storie e ai personaggi di Gaiman, tanto straordinario che io presi a ritagliare i fascicoli per appendere quei capolavori sulle pareti della nostra cameretta. Questa è la fine che fecero quei primi albi.

Che dramma… ahahaha…

Tornando a Soffio, sai che c’è un punto preciso in cui sono “entrato” nel tuo romanzo? Un po’ effetto Alice che ruzzola nella tana del Bianconiglio e scopre un mondo all’improvviso (il riferimento animale non è casuale tra l’altro…) ma come lettore più “agghiacciante” ancora.

Dico solo una parola: galline.

Ah ah ah.

La vita sui balconi, anche quelli di città, in quegli anni era molto più selvaggia. La presenza di galline in un appartamento al terzo piano, legate a un laccio per evitare che si suicidassero, non è una mia invenzione ma vita vissuta

Ecco si… non spoileriamo oltre ma ti giuro che come lettore mi sono visto lì a penzolare all’improvviso sbattendo le ali e ho capito che ero finito da qualche parte in un libro che mi stava prendendo. Sarà strano ma è così…

In generale, galline o altro, anche in città avevamo di sicuro una vita più selvaggia, forse per certi versi anche più pericolosa, ma molto più libera rispetto a quella dei nostri figli.

Ah, di sicuro.

Avevo letto un’intervista di Sorrentino nella quale diceva una cosa molto interessante a proposito dei figli, di come vengono vissuti diversamente oggi o comunque negli ultimi anni rispetto a come li potevano vivere dei genitori degli anni ’70. Cioè per i nostri genitori i figli erano un destino col quale bene o male dovevi venire a patti. Per noi invece i figli sono una missione da compiere con il massimo impegno e rispetto, e nella quale sentiamo tutto il peso di un possibile fallimento. Questa cosa credo che sia profondamente vera

Non saprei… dovremmo parlarne per ore credo, di sicuro per noi i figli rappresentano una scelta d’amore molto più che in passato, e forse questo determina il fatto che la sentiamo come una responsabilità più importante (non la definirei missione perché svilisce il sentimento secondo me…) rispetto magari ai nostri genitori. Per convesso c’è però il fatto che molti della nostra generazione e delle successive scelgono di non averne proprio di figli, e il nostro paese sta diventando un paese anziano e molto poco responsabile direi….

Ci sarebbe da parlarne, si.

Una delle cose migliori del tuo libro è essere riuscito a rendere un po’ tutte quelle atmosfere che non fanno parte del magico ma della parte più realistica della vita di quei dodicenni, e il contrasto tra i due aspetti eleva tutto il romanzo e avvolge.

Forse proprio perché si tratta di ragazzi in quell’età liminale. E forse perché l’elemento fantastico innesca un movimento interiore nei personaggii più giovani che va di pari passo con i movimenti dei personaggi più adulti: il tema della responsabilità, e in particolare quello della responsabilità nei confronti delle vite degli altri, prima che della nostra.

La dimensione del fantastico, o del weird, è il modo migliore per raccontare in modo autentico certe verità. È paradossale ma nemmeno tanto se pensi a quanto scritto in proposito da Mark Fisher. Ovviamente se, con la scrittura, si cerca di fare letteratura e non cronaca. Per esempio, secondo me, uno dei più importanti e significativi romanzi che raccontano cosa è diventato il mondo del lavoro è Sono Fame (Pidgin edizioni) di Natalia Guerrieri, una delle voci più interessanti tra gli autori più recenti. Ed è una storia che si potrebbe definire distopica.

Non l’ho letto, me lo appunto.

A tal proposito, ci siamo scambiati un po’ di idee sui libri che ci piacciono. Ho finito La Bellezza della Whitley che mi avevi consigliato e devo dire che è stata una lettura veramente intrigante, e anche un po’ fastidiosa, in senso buono ovviamente.

Io credo che tu debba assolutamente leggere Passavamo sulla terra leggeri di Atzeni per esempio, a questo punto, che mi pare tu mi abbia detto di non aver letto. Ma mi hai anche detto che ti piace la Clarke e in genere il tuo riferimento sono gli autori inglesi.

Ci sono molti autori, in particolare inglesi, che mi hanno accompagnato in questi anni. E sono autori che in modi molto diversi fanno parte della grande costellazione del fantastico: Edward Carey con la saga degli Iremonger, Philip Pullman, Lisa Tuttle, Aliya Whitley, per dire i primi che mi vengono in mente, oltre ovviamente a Neil Gaiman.

E poi abbiamo scoperto di avere in comune la passione per Il quinto evangelio di Pomilio, che riteniamo entrambi un capolavoro.

Assolutamente. Un capolavoro di cui si parla poco, troppo poco.

E ridiciamolo per bene allora: se state leggendo questa intervista, ecco, ci sono due lettori appassionati che vi stanno dicendo di correre in libreria, in biblioteca o dove volete (rubatelo con nonchalance in casa di qualche parente se trovate una vecchia edizione) e prendere subito Il quinto Evangelio di Pomilio. E leggetevelo per bene, gustandovelo, che tanto non avete cose più importanti da fare, a parte amare qualcuno. Ma è l’unica cosa più importante.

Ecco fatto.

Sottoscrivo completamente!

Torno sul tuo insistere sui dodicenni anni e ti chiedo: esiste un libro, il tuo primo libro da “adulto” se così possiamo dire, che ti abbia fatto percepire che amavi la lettura e forse anche l’idea che un giorno avresti potuto anche tu scrivere una storia? Per me credo sia stato Saluti notturni dal passo della Cisa di Piero Chiara.

Ce ne sono tanti, troppi, ci dovrei pensare molto più a lungo e ci dovremmo risentire fra qualche settimana…

Quindi tantissimi libri ti hanno ispirato fin da ragazzino, e quindi hai pensato presto di poter scrivere storie, di poter essere uno scrittore?

Ci ho pensato più volte e più volte ho pensato che non sarei stato in grado

Anche perché oggettivamente ho pubblicato pochissimo e scritto, tutto sommato, poco, e in modo irregolare.

Vero ma conta relativamente, perché anche se uno scrive un solo libro nella vita e decide di pubblicarlo comunque vuol dire avere il coraggio di prendere la parola di fronte a 3000 anni di letteratura più meno. Io penso spesso al perché scrivo, e la risposta è che non posso farne a meno. A volte vorrei poterne fare a meno… ma non è così. Sul pubblicare poi diciamo che qualcosa di scritto esiste se qualcun altro lo legge, e quindi per certe cose che uno scrive bisogna prendere una decisione per farle vivere, se si vuole che vivano.

Mi piace molto aver scritto qualcosa, più che voler scrivere qualcosa… ricordo di aver letto una cosa del genere tanto tempo fa, non so se la citazione è corretta né di chi sia ma mi ci ritrovo in pieno.

La mia vita finora è stata essenzialmente quella di un lettore, molto ma molto di più che quella di uno scrittore.

Capisco, e sempre per citare, sono molto più orgoglioso di quello che ho letto che di quello che ho scritto…

Tu avevi un “superpotere” o una certezza molto forte che poi è stata eliminata con la crescita?

L’ho detto male ma spero che tu capisca

Un “superpotere” vero e proprio no, però fino ai sei anni avevo delle visioni molto realistiche se così possiamo dire… vedevo cose, entità diciamo… ma forse capita a tutti i bambini, anche se le mie non erano tipo orchi sotto il letto, ma qualcosa di più vivido, reale, e diverso…o forse ero pazzo e poi son rinsavito, o forse no…vai a capire…

Vedi…per me, quindi non è un discorso che vale per altri, quella possibilità di percezione che ti raccontavo anche prima è una delle cose che mi interessa di più nella lettura e nella scrittura, una frattura sul piano della cosiddetta realtà. E c’è una parte molto importante della letteratura italiana, anche recente, che si ricongiunge a quei temi, a quei mondi: da Buzzati a Calvino, da Collodi a Tarchetti a Landolfi.

Il tuo Neogenesis secondo me ha qualcosa a che fare…

Capisco cosa intendi e sono d’accordo. Anche per me quella possibilità di percezione, come la chiami tu, è importante nella scrittura. Anche nel mio ultimo romanzo (di cui ho pubblicato solo il primo libro) è così in fondo.

Ti lascio libero con un’ultima serie di domande da risposta secca, sempre sui libri.

I libri o il libro più strano che hai letto, che ti ha spiazzato e dato magari nuove prospettive sulla scrittura, proprio in virtù delle cose che cerchi nella scrittura e che hai appena menzionato. Ce ne sono di libri che ti hanno proprio sconvolto?

Il signore delle mosche di Golding, La casa sull’abisso di Hodgson, L’anulare di Yoko Ogawa, Il deserto dei tartari di Buzzati Mattatoio n°5 di Vonnegut 1984 di Orwell, L’invenzione di Morel di Bioy Casares.

Qualsiasi cosa di Kafka. Così, a caldo

E un libro invece, anche un classico, che non solo non ti è piaciuto ma che proprio ti repelle, che ti fa dire: ma non poteva fare a meno di scriverlo (che so, a me è successo con Nottuario di Ligotti per esempio, e con vari autori italiani anche famosi di cui non farò nomi perché già parecchi magari mi odiano per avere fatto i loro nomi troppe volte… ahahaha…)

Questa è difficile.

Non è per furbizia, credimi, ma mi è capitato pochissimo di imbattermi in testi addirittura repellenti, perché ho come un sesto senso, e certi tomi nemmeno li avvicino.

Si, anch’io ho un sesto senso e il mio metodo per stare alla larga da certe cose. Però ogni tanto, diciamo ogni lustro, mi capita di prendere un libro molto letto e di cui si è parlato parecchio, per verificare quanto sono alienato forse, e constatare immancabilmente che non capisco nemmeno come sia stato possibile pubblicarlo, per dire.

Non è il caso che descrivi tu di sicuro, ma diciamo che, pur non giudicandolo repellente, non sono mai riuscito ad andare oltre pagina 30 di Neuromante che è unanimemente considerato un classico della fantascienza.

Oh…. concordo, anzi, io ho odiato non solo Neuromante ma anche gli altri due della cosidetta Trilogia dello Sprawl. Però questo non so se posso pubblicarlo, specie sul web, magari poi ci devono dare la scorta…sai che i nerd (noi lo siamo?) se gli tocchi i loro idoli diventano pericolosissimi…

Intervista a cura di Simone Battig

Giacomo Lopez ha pubblicato tre romanzi e alcuni saggi su cinema e TV. Lavora come producer a Rai Fiction. Vive a Roma con la moglie, due figlie e Olaf, un cane mascalzone.