Si dice che in ogni libreria del mondo ci sia almeno una copia de Il Piccolo Principe di Antoine de Saint-Exupéry, una storia scritta nel 1943, conosciutissima, citata, illustrata. Rubare la notte, Mondadori, l’ultimo romanzo di Romana Petri racconta e ricuce la storia di questo racconto e della vita del suo autore, dando forma a un nuovo genere di biografia letteraria, “tra la ricostruzione esatta alla Emmanuel Carrère (Io sono vivo, voi siete morti) e quella tutta d’immaginazione alla Joyce Carol Oates (Blonde)” come spiega Teresa Ciabatti, candidandolo al Premio Strega.
La copertina di Rubare la notte è un’illustrazione di Rita Albertini, artista fantastica, perugina di nascita e cattura il lettore immediatamente. Come è nata la costruzione di questa immagine? Vi siete messe a tavolino e ne avete parlato un po’?
No, nessun tavolino: ho scritto il romanzo e gliel’ho fatto leggere dicendo che avrei voluto una sua copertina, col suo stile. E lei si è messa all’opera e mi ha mandato questo quadro su tela che io ho trovato subito bellissimo e pertinente al romanzo. Quando ne ho parlato in Mondadori mi hanno risposto perplessi che i quadri come copertine non li faceva più nessuno, poi, hanno visto l’illustrazione e sono rimasti folgorati. Colpiti da questo cielo scuro, perché lui, Antoine, sta rubando la notte e si porta via le stelle, con questo aereo, guidato da una pecora.
Il Piccolo Principe, un romanzo che ha venduto 170 milioni di copie nel mondo, tradotta in circa 400 lingue e dialetti è l’ultima opera di Antoine de Saint-Exupéry. Le sue due anime, quella dell’aviatore e quella dello scrittore, rimangono unite sempre, come si legge: “Nel 1934, alla voce “professione” sul passaporto fece scrivere “Aviatore”. Sei anni più tardi invece: “Letterato”. Perché ha deciso di raccontare questo personaggio con queste due anime?
Perché è un vecchio amore, di quelli a cui si torna. Si è trattato certamente di un amore dell’infanzia perché io avevo un padre cantante lirico, Mario Petri, che ha fatto il Don Giovanni di Herbert Von Karajan in tutto il mondo ed era un uomo colto e particolare che mi raccontava le opere e i romanzi: da lui ha ascoltato l’Iliade e l’Odissea, La Gerusalemme Liberata, il Don Chisciotte, Jack London (da cui è nato il mio Il figlio del Lupo) e appunto Il Piccolo Principe. L’ho ripreso in mano, circa due anni fa. E ho iniziato a leggerlo in modo quasi ossessivo in quel modo che poi mentre leggi dimentichi quel che hai letto, che poi è esattamente come io scrivo: io scrivo e dimentico quel che ho scritto, il giorno dopo devo ritrovare i filo della narrazione. E mi sono sentita pronta a scrivere un romanzo su Saint-Exupéry, ho preso la sua voce, l’ho inghiottita e ho deciso di parlare per bocca sua.
Volo di notte, Pilota di guerra, Terra degli uomini, Lettera a un ostaggio, I taccuini, Cittadella e diversi altri sono state praticamente tutte opere dell’autore già scritte quando consegna alle stampe Il Piccolo Principe. Potremmo dire che questo romanzo è il suo testamento più intimo?
Sì, potremmo dirlo certamente. Insegnando francese al biennio faccio leggere spesso ai miei alunni Il Piccolo Principe e devo dire che è la storia più criptata che ho letto in vita mia perché ogni volta che lo si legge ci sono visioni differenti. E credo non lo si possa leggere soltanto una volta nella vita. Una sola volta ti conquista o ti irrita, occorrono più letture. Questo libro ogni volta che lo leggi, si trasforma e si trovano risposte che magari nella rilettura non ci sono. Non dimentichiamo che il piccolo principe si suicida, muore e non se ne accorge nessuno: un trucco narrativo formidabile. Tra l’altro i giovani di adesso, col teletrasporto, non ci mettono che un attimo a pensare che il morso del serpente è solo per tornare a casa. Invece credo che a quel punto lui sia colto dai rimorsi, perché ha abbandonato il suo pianeta, ne visita altri, e si rende conto, che nel frattempo, la sua rosa è morta perché nessuno l’ha più annaffiata. Ed era anche un pò il tormento che aveva l’autore per la sua “rosa”, sua moglie Consuelo.
Antoine, che nel romanzo troviamo spesso col suo diminutivo, Tonio, è un uomo spesso inadempiente nelle sue relazioni più importanti…
Lui era un uomo d’aria. Quando tornava a casa da Consuelo, era molto contento di essere tornato, poi magari la mattina dopo la moglie si svegliava e lui non c’era, trovava un biglietto e lui, era già altrove. È stato un amore molto frammentato, perché nonostante lui trovi in lei l’anima gemella, in realtà ha sempre bisogno di staccarsi dal legame “terreno” perché il suo legame più forte resta quello con il cielo, con l’aria. Certo aveva avuto altre donne: ma era un uomo che viveva con molta difficoltà i sensi e la spiritualità, quindi, aveva delle storie che potevano essere particolarmente sensuali, ma poi altre, che erano solo romantiche, afflati e connessioni. Del resto il suo atteggiamento nei confronti del mondo, della vita, il suo approccio è quello dell’uomo che deve imparare a disincarnassi: un po’ come Dio ha scelto di scendere nella condizione umana, così l’uomo potrebbe disincarnassi per essere meno uomo e avvicinarsi all’immagine di Dio.
Lui è stato un grande cercatore di Dio per tutta la sua vita. Lo spirito era dominante e non lo raggiungeva mai così tanto come quando era scomodamente seduto in mezzo al cielo.
Tonio nasce in una delle famiglie più antiche di Francia, perde il padre da piccolo e cresce con la madre e i fratelli: il rapporto con la madre è un imprinting determinante per lui che si sente un figlio coccolato, accudito, in questa infanzia nonostante tutto serena. Una infanzia di cui avrà quindi nostalgia…
Ho voluto scrivere un romanzo e non una biografia classica, per esempio tutte le lettere che lui scrive alla madre sono immaginarie, nate da un processo di identificazione molto forte. Lui viene considerato spesso come lo scrittore che più di qualunque altro parla dell’infanzia e che la rimpiange, ma lui a mio avviso è andato molto oltre e sin da piccolo sentiva il peso dei giorni che passavano e l’infanzia e le tenerezze non sarebbero state eterne, anzi. Quasi tutti dicono che Saint-Exupéry è il papà del piccolo principe: ma non è esatto, lui stesso è il piccolo protagonista, in questo racconto dove lui adulto ritrova il sé bambino.
E non è un caso che quel bambino poi sparisca: ciascuno di noi se si mettesse a cercare il bambino che è stato, potremmo cercare per tutto il mondo, senza trovarlo. Quella è una parte di noi che è già estinta. La nostra vita è come la spina dorsale di un serpente, ci passiamo in mezzo un filo interdentale e ogni singolo cerchio è staccato dall’altro e quindi nella nostra vita facciamo tante piccole prove generali di morte e per Saint-Exupéry quella cruciale è proprio quella dell’infanzia. E quindi il pilota è Tonio da grande che incontra Tonio, piccolino.
La madre, Consuelo, i suoi ideali. La parte delle lettere è quella che caratterizza una reinvenzione della sua biografia…
Questo testamento de Il Piccolo Principe si è anche un po’ realizzato poiché lui rientra e riparte in guerra e ha offerto il suo corpo ai santi di Francia.
Nel romanzo viene fuori la figura di un uomo idealista e impavido, che non aveva paura di volare di notte, quando era ancora estremamente pericoloso: era sempre così coraggioso…
Lui ha un po’ stravolto il concetto di coraggio: perché diceva che il coraggio senza ragione era o follia o dettato dall’estrema giovinezza. E quindi credeva che il vero coraggio fosse quello di portare a compimento un’opera, una missione, perché nonostante avesse subito delle ferite e ci mettesse tanto tempo per prepararsi, vestirsi, prima di volare, diceva che quello fosse il tempo concesso alla paura, poi, una volta staccato da terra, il corpo non era altro che messo a servizio dell’umanità intera. Per lui il coraggio era offrire qualcosa di sé. E vivere e morire erano legati entrambi dalla necessità di fare qualcosa di benefico.
Intervista a cura di Antonella De Biasi
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