“Posso raccontarmi solo a patto di raccontare altre donne, solo riconoscendo la mia vita dentro altre vite”: con queste parole Gaia Manzini, svela subito il nucleo della narrazione del suo ultimo romanzo La via delle sorelle edito da Bompiani, mostrando quello che si leggerà nelle pagine potenti che verranno e che rappresentano un ibrido letterario tra il memoir e un ritratto collettivo delle scrittrici che sono state determinanti nella sua formazione.

Oltre quindi al racconto delle esperienze vissute con le amiche che hanno affiancato l’autrice nelle diverse tappe della vita, da Silvia e Marina, amiche di infanzia, a Livia e Bet, in adolescenza, Bianca, Frida, Marta e Viola, Ilaria e Laura… ci sono loro, le grandi autrici che hanno segnato il passo, illuminato la via. E che non vengono riprese nelle loro grandi opere, almeno non solo, ma nelle loro relazioni con le altre donne, amiche e sorelle nuove.

E subito la dualità della narrazione viene fuori in una sorta rispecchiamento continuo che accompagna tutte le pagine scritte in modo intimo, cucendo memorie e sguardi, tra le amiche di Manzini e le amiche letterate, fari nella notte: Antonia Pozzi, Natalia Ginzburg, Elvira Gandini, Lalla Romano, Virginia Woolf e Katherine Mansfield, Simone de Beauvoir, Sylvia Plath, Anne Sexton, e anche artiste famose come Marilyn Monroe ed Ella Fitzgerald.

“Essere osservata. Vivevo per stare neo sguardo degli altri, costruivo me stessa in base al loro giudizio. Se nessuno mi notava, io non esistevo: mi sentivo morire. L’amicizia allora, quella per Livia in particolare, era questo: un riconoscerci a vicenda come degne dello sguardo del mondo”.

Lo sguardo domina i racconti di questo romanzo: quello che cambia nelle tre età dell’amicizia che sono ovviamente le tre età della vita e quello con cui guardano il mondo ( e loro stesse) le grandi autrici, anche loro impegnate, nel rispecchiarsi.

Si diventa amiche di istinto, col corpo, per giocare e stare assieme, pedalare in bicicletta, percorrere il bosco: i rapporti nascono sotto l’egida della purezza e della condivisione, quella che muove poi le scelte dell’adolescenza, quando ci si cerca per affinità, di stili, di gusto, di sogni. L’amicizia dell’età adulta è invece più complessa, che si nutre e si poggia su progetti condivisi. E non necessariamente si tratta di progetti che divengono concreti, tangibili, ma intanto sono stati il collante per due personalità che insieme sono diventate complici, alleate.

Tutto si può leggere come una mappa: si parte con i racconti di bambine con “Oltre il giardino” e si cresce con “Prendere il volo” e “Mangiare la Musica”, si approda con le “Scarpe rotte”, arrivando a “La Luce negli occhi” e “La Sorgente”.

La sacralità della parola scambiata è la base dei rapporti di amicizia che Manzini racconta partendo dal legame di Antonia Pozzi con le sue migliori amiche, Lucia ed Elvira: un rapporto fatto di tantissime parole, tantissimi discorsi e lettere in cui si confidano tutto, commentano ogni cosa e organizzano escursioni e avventure meravigliose.

Catherine Mansfield e Virginia Woolf sono descritte come due scrittrici completamente diverse tra loro – le si può quasi immaginare, una lunare, l’altra terrestre-  ma al contempo molto simili nella volontà dello scambio: quando si incontravano, parlavano continuamente parlavano di letteratura parlavano dei loro libri e dei libri degli altri, erano legate da questo senso sacro della parola scritta che viene preceduto da quella che è la parola parlata.

La parola che diventava poesia come viene raccontata nel legame di Anne Sexton e Sylvia Plath, poetesse negli anni cinquanta e sessanta, che davanti a un Martini parlavano di tutto e  ridevano di tutto, per esorcizzare la paura schiacciante che le vedeva relegate solo a certi ruoli in quanto donne e loro, che erano anticonformiste, ribelli e creative avevano bisogno l’una dell’altra per sostenersi. Natalia Ginzburg e Angela Zucconi si incontrano invece in Einaudi alla fine della guerra: vanno a vivere insieme nella grande casa di Angela in Cola di Rienzo a Roma e lavorano per mesi alla creazione di una rivista, che si sarebbe dovuta chiamare “Arianna” e sembra di sentirle in quel flusso di parole continuative che crea uguaglianza tra le persone, tra le amiche e nello stesso tempo, crea ponti e collegamenti.

Quando si scrive si prende distanza, ha detto la stessa Manzini e rintracciando la storia  delle sue amicizie, scandite dalla scuola, dai viaggi, dai progetti di lavoro non solo si prende distacco da alcune esperienze oscure e negative, ma esse si rivestono di un senso nuovo all’interno del proprio percorso. E divengono passaggi necessari: come il racconto della paura con Frida, nella “grande grotta”, sfidando la paura. O le difficoltà nel rapporto col proprio corpo, le scelte sulla maternità, le eredità delle famiglie.

“L’amicizia è una forma d’amore. Un amore libero dalle declinazioni condivise della coppia, meno incancellabile e definito. Non ci sono solo gli amici di vecchia data. Esistono tracce di intesa, accensioni, la luce che torna  e illumina una stanza e in quella stanza c’è qualcuno che prima non c’era”.

Il riconoscersi come identità che sanno prendersi per mano come nel racconto al faro a Cabo de Roca, con la sua amica Laura: l’autrice lo rende tattile in ogni passaggio ed è una sensazione che si riconosce, pur essendo personale e intima come in ogni memoir che si rispetta si allarga all’universale: “proprio perché insieme sapevamo sempre chi eravamo, potevamo essere una cosa sola che si diffondeva tutt’intorno”.

La sorellanza per Manzini è un riconoscersi: le amiche sanno guardarsi in modo profondo e rivelandosi le une nelle altre capiscono chi sono.

Antonella De Biasi