È una dichiarazione di guerra la poesia di Francesco Elios Coviello, in questo esordio dal titolo L’oltranza (RP libri 2022, a cura di Antonio Bux per la collana L’anello di Möbius), termine che sottende una ferma e strenua resistenza. 

Se resistere indica una decisa intenzione ad affrontare e respingere un atto ostile condotto da qualcuno ai propri danni, L’oltranza ha tutta l’aria di essere un titolo che sfugge alle convenzioni, repellente com’è alle terminologie abusate, quale resilienza ad esempio, che pure potrebbe in qualche modo mettersi in sintonia con il sentire del giovane autore barese, classe 1994. Non è un caso che sulla copertina compaia una parola come Oltranza, così ben ricercata e rappresentativa. È come uno stendardo di guerra, vale quasi quanto le armi, in quanto assume una simbologia identitaria che a sua volta rappresenta un presupposto decisivo per la tenuta del fronte. 

A ben vedere, tuttavia, questa dichiarazione non presenta nulla di eroico, anzi è retoricamente sfilacciata. L’espressione versificatoria si configura in una struttura colloquiale talmente carica di ricercatezze che alla fine l’interlocutore sembra stranire. Non è un difetto, ma un effetto voluto. Il lettore contemporaneo è spaesato, ma non lo ammette: non afferra, non esplora, sembra volersene stare al sicuro nella bolla delle frasi fatte. Per questa ragione ha bisogno di una terapia d’urto.

Coviello si fa artefice di una parola che non intende in alcun modo compiacere il presente pur restandovi dentro. È una poesia che mette in scena destrutturazioni, qualche forzatura morfologica, molto ritmo, un rimuginare di suoni antichi per poi sputare un estro che parrebbe quasi porsi al di là dalla storia. Sebbene i riferimenti poetici siano vicini a quelli individuati da Antonio Bux nella prefazione (Amelia Rosselli, Nadia Campana, Claudia Ruggeri e Marina Pizzi), Coviello, trasfigurando i gangli esistenziali, sembra voler conferire al manufatto letterario una connotazione dal sapore politico. 

Pertanto ritorniamo al principio: L’oltranza è una dichiarazione di guerra contro tutto l’appiattimento sociale, fatto di forme scontate, patinature e triti slogan. Una guerra scoppia in assenza di mediazioni politiche, il poeta affila il logos e scende in campo sventagliando versi di ataviche e profonde allusioni. Se è tutto imbrigliato e nella ripetizione ossessiva, svanisce la comunicazione e resta il lavaggio del cervello. Ecco che la poesia è puro atto di ribellione. Come? attraverso parole misurate, essenziali, che arrivino al lettore? Sciocchezze! sembra affermare Coviello. La poesia ha bisogno di guardarsi in se stessa per recuperare la libertà che le appartiene, non è tempo per inutili sbrodolamenti sentimentali. Sfidiamo il contemporaneo con arcaismi e termini specialistici, pieghiamo l’accademismo e la scienza ai bisogni della nostra esistenza, immaginiamo una liturgia del caos e usciamo dalle nostre sicurezze fino a perderci nella visione del surreale. Ricostruiamo questo mondo con un linguaggio d’altra foggia e riprendiamoci la vera essenza dell’uomo. Tutto già detto, già visto, già fatto? Le macerie sono pur sempre un atto consumato e da qualche parte toccherà scavare. Ecco perché L’oltranza è una piccola opera coraggiosa, è ambiziosa e non ha paura di nascondersi. Attendiamo l’autore al varco della maturità, intanto abbiamo ottimi spunti di cui godere.

Disgraziato furore, a nodi
fai la carta del mio piede, la
stracci e pieghi come sordina
antica duttile bianca serena
zolla di calore fionda pasta
di grigie stelle lontane e
sempre avrai un picchio infedele.
Sempre la stessa masnada
sulla via del biondo terso spago
che unisce i miei piedi scalzi
li rende giunchi, li stira
e quindi non è vera, è lavica scura
sulla sponda del nevicato greve
mandorlo a punta. E piega
la storia la spende in miserie
gesta di corvi, Io non ho l’ora.

*

Con chi fare a pugni di notte?
Non lacrima più un sole se non
per cortesia, eppure le notti sono
valli di smarrimento, chiarore
autoindotto, fermentazione utile
per farci le steppe, per costruire
i bisogni con tegole e acciarini.

Fregarsi le mani, chi lo spiega
ai bisogni piani che la straccia
carta diviene muta per stagioni
più oneste? Nessuno prende per buone
le variopinte stigmate a coste
del santo, del mendico pianto
che istanze porta al livido

Immane. Una, due serrature
sciolgono i muscoli rinserrati
ruvidi canti di novena
attesa baluginante pretesa
di stare a terra e muovere dita.

*

Le parole fatte a trucioli, gli apostrofi
le notti disegnate e i colori spiegati
sparsi come calici di tulipani.
Prendere parola per poi tacere.
Attorno alla dura piazzola di sosta
c’è il velo, c’è la statua di schiena
e portare rose è un lucido affronto
all’eremo sciolto nel fondo chiarore.
Senti le vecchie lagne e le tele
dei sarti, sentimi coi digiuni stanchi
non divaricare sonni, non inciampare
nel bozzolo primo, nel sordina munito
tostapane, parla ad libitum sui
nidi del casale scolastico. Dubita
sola partenogenesi è arresa
al dubbio, desiderio dei miti.

Federico Preziosi

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