C’è una città, da qualche parte, che brulica di vita e di rumore. Ai suoi margini un limbo di fango, macerie, oggetti e rifiuti lasciati indietro da quelli che sono andati via. Così vicina da vederne le luci la sera, ma così lontana che la sua esistenza non riesce a scalfire il silenzio di questo rione cimitero, la città prospera a un passo dai nostri protagonisti senza mai rivelarsi ai nostri occhi di lettore.
Fanni ed Elvis, lasciati indietro come i mobili e gli oggetti di questo universo a un passo dalla normalità, fanno la guardia alle spoglie fatiscenti dei due palazzi gemelli al centro della narrazione e ai loro confusi ricordi finché un giorno Elvis non trova, immobile nel fango davanti casa, un uomo annichilito che sembra essersi materializzato lì come per magia. In perfetta antitesi col luogo in cui compare, sporco e inebetito come dopo una seconda nascita, l’uomo è completamente immemore e non sa dare al ragazzino notizia alcuna sul suo passato, nemmeno il suo nome. Elvis decide che si tratta di Pietro, andato via chissà quanto tempo prima, e lo battezza Pietro Ritornato.
Il racconto, costruito su una scrittura densa e sempre indovinata, si snoda attraverso un percorso sensoriale vivo, pregnante, intenso fin dalle prime righe che ci restituiscono il rumore della pioggia, il calore teneramente animalesco del corpo di Fanni, l’umore viscido del fango. L’atmosfera si alterna tra il cupo, il rassegnato e una forma di onirico al limite con l’incubo. Il risultato è un’esperienza di lettura intensa che ci lascia addosso la solitudine del rione abbandonato, l’entusiasmo di Elvis, il calore che pian piano riprende il corpo di Pietro Ritornato; la rassegnazione di Fanni è la nostra rassegnazione.
Nel suo L’uomo nel fango, pubblicato a Settembre 2019 nella collana I bugiardini edita da Autori Riuniti, Livio Milanesio ci consegna gli occhi e le emozioni di questi tre personaggi e ogni punto di vista ci calza a pennello, ci offre una chiave di lettura sempre lievemente diversa su un passato enigmatico, perso nel tempo eppure ancora lì, malinconico e pressante, e su un presente spoglio, indecifrabile e vendicativo.
Un racconto crudelmente dolce e metafisico come gli orologi di Dalì e i manichini di De Chirico, in cui ci misuriamo con un tempo altro, apparentemente immobile durante la narrazione e malvagio e implacabile in quel trascorso popolato di fantocci senza nome e senza volto – non rimangono nemmeno i cognomi sui citofoni – che non è più e forse non è mai stato. Questa visione contagia anche gli oggetti: la coperta leggera, la collezione di Elvis, lo scaldabagno rotto, la moto in costruzione; sono tutti tesi verso il passato o il futuro, mai funzionali o adatti al qui e ora.
Ci troviamo in un luogo così diverso e lontano dal mondo quotidiano che potrebbe anche non esistere e che richiama così Una pura formalità, vecchia ma indimenticata pellicola di Giuseppe Tornatore in cui vediamo un giovane Gérard Depardieu trovarsi in una situazione simile a quella di Pietro Ritornato. E come per il film di Tornatore, i manichini di De Chirico, gli orologi di Dalì e le altre narrazioni che riescono a cogliere l’ossessione contemporanea per il tempo esaltandone la sua essenza inafferrabile, L’uomo nel fango è una narrazione che rimane, lascia qualcosa in fondo alla gola e non si fa dimenticare.
Ambra Stancampiano
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