Siamo ripartiti: dopo due mesi di lockdown e di paure terribili verso un nemico invisibile e pandemico; abbiamo ripreso a uscire, a compiere piccoli gesti di una normalità dimenticata e adesso ancora modificata. Ma la vita delle ultime settimane ci ha cambiato nel profondo, nei rapporti con gli altri e nel valore da attribuire alle cose.
Abbiamo fatto i conti con il concetto di “controllo” in quanto incapaci di prevedere una situazione tanto grave e tanto complessa, i programmi sono saltati, le scalette e le liste delle cose da fare si sono modificate improvvisamente ed è anche “scaduto” il sistema fortemente competitivo in cui eravamo calati, poiché c’era una situazione comune e tutti abbiamo voluto raggiungerci nel momento in cui ognuno si è sentito lontano dal posto in cui avrebbe voluto essere.
Abbiamo chiesto a due scrittrici, una poetessa e uno scrittore come hanno vissuto questo periodo storico particolare, cosa è cambiato e cosa ci è rimasto come una traccia per il futuro.
Nadia Terranova è appena uscita col suo ultimo libro, Come una storia d’amore, edito da Giulio Perrone editore, il suo libro finalista allo Strega, Addio Fantasmi è stato tra i più letti durante la quarantena: «Credo che durante l’isolamento siano venute fuori le sperequazioni sociali e le diseguaglianze: pensiamo ai malati di mente, ai disabili, ai lavoratori precari, il sottoproletariato soprattutto e tutta questa schiera di umanità, credo sia venuta fuori negli aspetti non più marginalizzabili e penso che sia emerso il dato che non possiamo far finta che siamo tutti uguali, l’espressione tanto usata ad esempio, del #Restiamoacasa, implicava dei problemi per una parte delle persone che avevano problemi psichici, chi aveva qualcuno di fragile tra le mura domestiche».
«Io ho cercato di guardare il mondo attraverso la poesia: piuttosto che leggere continue analisi su tutto quello che stava accadendo mi sono rifugiata molto nei versi concisi della poesia, nel teatro. Per me è stato difficile “spaccare” in due la parola casa e accettare che quella parte di casa che è riempita dallo Stretto, dalla Sicilia, non è raggiungibile: all’inizio questo mi ha spaccato il cuore, ma come hanno fatto in molti mi ci sono abituata, l’ho accettato».
«Ho smesso di guardare le cose che dicevo di voler fare e ho iniziato a guardare le cose che volevo guardare davvero – ha spiegato Ivano Porpora, autore de L’argentino per Marsilio e La conservazione metodica del dolore per Einaudi, è fondatore del Penelope Story Lab dove si scrivono cose bellissime – essere “confinati” anche nel muoversi entro massimo 200 metri ci ha messo nella condizione di osservare persone che prima non avresti conosciuto, vedere gli spazi all’interno dei quali vivi e che sarà certamente una cosa che ci porteremo in eredità da questo periodo di sospensione, in cui è arrivato anche il momento depressivo, ma costruttivo, sviluppando uno sguardo più acuto sulla vita».
In particolare sono emerse le reali passioni delle persone: «cose che sentivamo il desiderio di fare e rimandavamo a un tempo indeterminato e invece in ogni condizione di emergenza ti focalizzi su quello che vuoi davvero – ha spiegato – non a caso molte relazioni improvvisate sono crollate, i rapporti umani poco interessanti si sono involuti e spenti e invece sono nati gruppi di persone che hanno cominciato a volersi sentire perché accomunati da interessi e codici comuni. Si cerca di capire cos’è la crisi e cosa succederà dopo la crisi: ci siamo scontrati con diverse fasi critiche nel corso del ‘900, pensiamo a quella della fine della prima guerra e allo scenario artistico che si è aperto dopo, ma pensiamo al crollo dell’Est Europa e al decadimento di quella ideologia politica e a tutto ciò che è successo dopo».
«Ognuno di noi è stato comunque chiamato a fare la sua parte e noi, che siamo operatori della comunicazione, ci siamo attivati sui canali web per fare delle attività gratuite che fossero un punto di incontro e di riferimento per le comunità. Abbiamo pensato di farci carico della quota di società che trova giovamento dal nostro lavoro: ed è così che sono nati i Caffè di Penolope, creando connessione e possibilità. Anche perché se vogliamo spingere la popolazione a consumare più prodotti culturali, devi farli conoscere, renderli fruibili e far capire quale sia la differenza anche tra un prodotto e un altro. E credo che questa sia stata una grande risorsa dei tempi del Covid.
Sono curioso di osservare la situazione nelle prossime settimane».
Uno sguardo maggiormente critico e più sociale ce lo ha dato Veronica Raimo, autrice di Miden per Mondadori e di Bambinacce per Feltrinelli, scritto con Marco Rossari: «Non sono tra quelli che ha pensato che ne saremmo usciti migliori, anzi. Mi sembra che il pensare troppo a sé stessi non sia una “scuola” a cui mi rifaccio. Sono andati molto questi corsi di mindfullness in cui si parlava di strategie di autoprotezione, autoconservazione, invece pensavo che quel che mancava era smettere di calcolare i rapporti con un rischio dentro. La fobia per alcuni tratti ha pervaso molti di noi: l’altro e l’estraneo sono stati considerati dei soggetti “pericolosi”. Non dobbiamo certo dimenticare che ci sia stato il meccanismo di solidarietà, ma è cresciuta nella comunità ristretta, tra simili e non quella “allargata”. Naturalmente la tecnologia è stata un valore aggiunto poiché ha permesso di tenere insieme delle relazioni o delle attività che, pensiamo, se tutto fosse avvenuto alcuni anni fa, sarebbero state interrotte completamente. E sulla sindrome del rifugio? Nasce dalla pericolosità del virus, ma dalle attitudini poi di ciascuno, poiché non dobbiamo mai dimenticare che non tutti potevano vivere i comfort di una “reclusione”. Credo che però l’eredità positiva di questo periodo siano dei discorsi venuti fuori sulla preservazione della salute pubblica e sulle diseguaglianze sociali, poiché in un momento emergenziale le differenze emergono. Valori fondamentali che la stessa politica aveva completamente dimenticato».
Abbiamo però di fatto riscritto un’etimologia degli affetti, come dice Paola Mancinelli, poetessa pugliese, autrice de La resa del grazie, edito da Giuliano Ladolfi Editore «Durante il mio lavoro di insegnante a esempio ho cercato di dare un senso ai miei piccoli alunni: ho trovato un libro che parla della voce degli oggetti, della narrazione di ogni cosa che si trova in casa: volevo puntare sulla creatività e sul senso dell’ambiente in cui si è stati confinati, non vivendoli come una prigionia. Prima, se ci pensiamo, c’era già tutto, ma poi, in questi mesi, il mondo intimo si è completamente rovesciato: pensiamo anche al fatto di dover dichiarare “il congiunto” piuttosto che un amico con cui ci conosciamo da piccoli è diventato paradossale.
Ho riflettuto quindi sul concetto di “limite”: abbiamo visitato un territorio sconosciuto, in cui non tutto era più “libero” come sancito anche dal potere normativo, quello che prima era consueto è ancora in parte inaccessibile. È nata una sorta di etimologia degli affetti: rendere la radice. Chiedersi a chi sei attaccato?
Cosa ci resta dopo questa alluvione che in parte stiamo ancora vivendo? Mi vengono in mente i cercatori di pepite nei fiumi, dopo le alluvioni col loro setaccio che cercavano di filtrare quanto di più prezioso possibile: sono andata a cercarmi il significato di questa parola e vuol dire “seme”. Siamo tutti scheggiati, irregolari: non possiamo dire se siamo migliori, possiamo dire che siamo differenti. La ricostruzione contiene sempre un cambiamento perché appunto è ricostruito, quindi diverso. Ricucito: amo molto l’immagine poetica dell’ago che ricuce che lascia la cicatrice, del riattaccare, la memoria storica che deve conservare traccia di questo periodo».
Antonella De Biasi
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