Voglio iniziare questo articolo con una domanda che al contempo pongo a me stessa e a tutti i lettori: tra i cinque sensi, qual è quello più imprescindibile per uno scrittore o, meglio, per un poeta? Non so se esista una risposta univoca e probabilmente un autore simbolista risponderebbe che sono tutti fondamentali, e che ancor più importante è il dialogo sinestetico tra di essi. Nel caso più specifico del poeta Sandro Penna credo, però, che ci sia un senso che si staglia prepotentemente sugli altri, ovvero quello della vista.
Sandro Penna è un osservatore; o meglio «un contemplatore», per dirla con le parole di un suo grande ammiratore e amico, Pier Paolo Pasolini. Quest’ultimo, in una lettera del febbraio 1970, si rivolge al nostro poeta con le seguenti parole «in questa vita tu ti sei tenuto in disparte, a contemplarla, come un animale buono, che qualche volta deve pur nutrirsi, e allora è costretto a predare, non potendo vivere di pura contemplazione, di gioia e dolore di esserci» e ancora «la tua poesia consiste nell’osservazione lieta e priva di ogni speranza delle cose (per te pochissime, anzi forse una sola) che si possono cogliere nel mondo per sopravviverci».
Per comprendere meglio questo aspetto, è sufficiente pensare ad alcuni versi di Penna: «guardo il cielo e le nuvole e le luci / degli uomini laggiù così lontani / sempre da me. Ed io non so chi voglio / amare ormai se non il mio dolore». Sandro Penna si presenta così come un contemplatore e la sua scelta di osservare assume un valore esistenziale: non si tratta di un semplice guardare, ma di un guardare che è conseguenza di un’autoesclusione dalla vita. Il poeta, infatti, non partecipa delle cose ma si limita a osservarle, a constatarne la lontananza e a prendere atto della distanza che si frappone tra lui e le cose, tra lui e la vita che non a caso si svolge «laggiù», in un altrove che non lo riguarda.
Si tratta appunto di una scelta dal valore esistenziale, della rinuncia a essere protagonista e della conseguenza – forse inevitabile – di diventare spettatore. Sorge, a questo punto, un’altra domanda, ovvero cosa possa attirare l’attenzione del nostro poeta-spettatore, cosa si configuri in quanto oggetto degno di contemplazione. Ancora una volta la risposta si annida nei versi dell’autore: «vidi arrossire un giorno in un giardino / fanciulli», «io vedevo alle svolte nel sole apparire / un nudo corpo di fanciullo», e ancora «solitario un fanciullo scorgo assorto / in qualcosa di oscuro ch’io non oso / indovinare… Poi, scoperto, un guizzo / e un salto lo riportan gaiamente / a nasconder nel mare il suo peccato». Che il soggetto privilegiato dal nostro poeta siano i fanciulli è confermato dallo stesso autore: «Sempre fanciulli nelle mie poesie! / Ma io non so parlare d’altre cose. / Le altre cose sono tutte noiose. / Io non posso cantarvi Opere Pie».
Lo sguardo di Penna predilige appunto i fanciulli, che da oggetto del desiderio diventano poi tema principale di tutta la produzione poetica, una produzione contraddistinta da un fortissimo carattere erotico. Tuttavia, proprio la tematica amorosa rappresenta uno dei punti più nevralgici (ma anche ingannevoli) del corpus poetico del nostro autore: se appunto è vero che il poeta è sedotto dai fanciulli e si abbandona alla contemplazione di questi ultimi, l’amore che pervade l’autore travalica decisamente i confini del desiderio carnale e assume proporzioni assolute. E sono nuovamente le parole del poeta a venire in nostro soccorso per chiarire cosa si possa intendere per poesia erotica: «Poeta esclusivo d’amore / m’hanno chiamato. E forse era vero. / Ma il vento qui sull’erba ed i rumori / della città lontana / non sono anch’essi amore?».
È lo stesso Penna a mettere in discussione l’etichetta e la categorizzazione entro la quale si è cercato di limitarlo: non nega di essere poeta esclusivo d’amore, ma indaga in profondità cosa sia l’amore. E l’amore si delinea come un concetto totale e polisemico, che può inglobare il desiderio carnale ma che in realtà racchiude tutto ciò che è espressione di vita. Non risulta più possibile allora ridurre la poesia di Sandro Penna a poesia (omo)erotica, perché provarci è un po’ come tentare di rinchiudere l’oceano in una bottiglia, l’infinito nel rigido contenitore del finito. E il cerchio si chiude con una – tra l’altro bellissima – poesia che offre una nitida immagine dell’autore come “spettatore innamorato della vita”, che proprio dal guardare trae la linfa necessaria all’operazione poetica: «Sempre affacciato a una finestra io sono, / io della vita tanto innamorato. / Unir parole ad uomini fu il dono / breve e discreto che il cielo mi ha dato».
Costanza Brini
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