Il cinema ha provato a imbrigliare il genio chiamato Sylvia Plath. È il caso del film Sylvia, prodotto dalla BBC, uscito nel 2003 con Gwyneth Paltrow e Daniel Craig (che interpreta il poeta Ted Hughes, marito di Sylvia). Una pellicola fin da subito travagliata: il regista, Pawel Pawlikowski, lascia all’improvviso la produzione. Pawlikowski affermerà poi in un’intervista di essersi sentito soffocare, l’intero progetto era in mano a Hollywood e non c’era spazio per dire la propria e modificare la sceneggiatura, era tutto già prestabilito. Viene quindi affidato a Christina Jeffs, che aveva esordito con Rain due anni prima, e ancora una volta nasce un altro ostacolo. La figlia di Sylvia, Frieda, disapprova la sceneggiatura e in una poesia di 48 versi esprime il suo disappunto:
“They think I should give them my mother’s words
To fill the mouth of their monster
Their Sylvia Suicide Doll.”
“Credono che dovrei dare loro le parole di mia madre, per riempire la bocca del loro mostro, la loro bambola suicida Sylvia”. Frieda infatti nega i diritti agli scritti di sua madre e sottolinea di non voler ritornare su un momento così traumatico della sua vita e di quella di suo fratello. La BBC le risponde che non si tratta di un focus sul suicidio della Plath, e che l’argomento è trattato con estrema delicatezza.
Anche la promozione del film fallisce, ci viene venduta una appassionata storia d’amore tra due grandi menti, ma ci ritroviamo in due ore in una relazione tossica, complicata, a tratti violenta tra un uomo egoista e una donna isterica. Il ritratto che ci viene offerto di Sylvia fa storcere il naso. In tutta la durata della pellicola, a differenza di quello che afferma la BBC, si fa spesso riferimento al suicidio: Sylvia ne parla con un Ted spaventato più volte, tenta persino di farlo davanti ai suoi figli. Sylvia ci appare sempre nevrotica, aggressiva, volutamente fragile e la sua poetica è sola una piccola parte della sua vita. Ted è il genio Ted, quasi a offuscare la potenza di Sylvia. Il film porta il suo nome ma finisce per essere un dramma a due, incentrato sull’egoismo e i tradimenti di Hughes.
Sylvia era fragile ma è stata anche altro. Nei suoi diari c’è un mondo legato alla sua scrittura, alla psicoanalisi con la dottoressa R.B., all’autoanalisi, ai suoi componimenti. C’è la Sylvia innamorata di Ted (“è come se lui fosse la perfetta controparte maschile del mio io: ci offriamo a vicenda un’estensione della vita in cui crediamo: senza diventare mai schiavi dell’abitudine, dei lavori sicuri, dei soldi: ma scrivendo sempre, passeggiando per il mondo con tutti i pori aperti e vivendo con amore e fede”), e c’è la Sylvia che è stanca di dedicare solo il suo tempo a lui, ma è consapevole di avere bisogno del suo spazio, di dover lavorare su sé stessa, sulla sua poetica per poter diventare “una scrittrice geniale”. C’è la Sylvia creativa, la Sylvia dalle diverse maschere, la Sylvia tormentata, la Sylvia forte. Non c’è sempre e solo Ted, c’è la sua dimensione di madre (ha due figli ma subisce anche un aborto), c’è la sua dimensione di figlia. Perde il padre a otto anni e instaura con la madre un rapporto di simbiosi. Simbiosi che verrà contestata dalla sua psichiatra, “«Ti autorizzo a odiare tua madre»”.
“Ti serve uno sbocco e sono tutti ermeticamente chiusi. Vivi giorno e notte nella buia, ristretta visione che ti sei costruita con le tue mani. E così ecco il giorno in cui senti che esploderai, ti spezzerai in due, se non potrai liberare la grande riserva che ti ribolle dentro e che fuoriesce da qualche fessura nella diga. […] E tu digrigni i denti e ti disprezzi per la tua tremula sensibilità, chiedendoti come possano degli esseri umani accettare che per tutta la vita la loro personalità venga stritolata senza pietà sotto una dittatura disumana, sia essa industriale, statale o istituzionale”.
Interno, notte: Sylvia è allo scrittoio della sua casa, dalla finestra si posa sul suo diario la luce della luna; o anche esterno giorno: Sylvia cammina intenta a scarabocchiare sul suo diario prima di una lezione. È la prima scena con cui aprirei un film sulla scrittrice intenta a esprimere il tramestio dei suoi mille cuori con furiosa sincerità. Un germogliare di scrittura che strabocca e si aggrappa alle pagine dei suoi Diari. La costante ricerca della parola, il riflettere su ciò che la imprigiona, “I gatti hanno nove vite, dice il proverbio. Tu ne hai una; e in qualche parte del tenue, esile filo della tua esistenza c’è il nodo nero, il grumo di sangue, l’arresto del battito cardiaco che rappresenta la fine di questo particolare individuo che si scrive «io» e «tu» e «Sylvia». Così ti interroghi su come agire e come essere, sui valori e sugli atteggiamenti”.
Invece la simbiosi con la madre e poi con Ted, come la vediamo nel film con Paltrow, le impedisce di scrivere: “è come se non avessimo, ma parlo soprattutto per me, neanche un centimetro di pelle a separarci, e continuiamo a sbatterci addosso e a sbucciarci”. Il distacco è difficile e le porta in superficie rabbia e sensi di colpa, nella pellicola viene rappresentata la sua gelosia per Ted, i momenti di depressione e apatia. Anche dopo la separazione da Ted, l’ultimo periodo ci viene mostrato nella completa disperazione.
Sylvia definiva il suo umore “tutto impastoiato. Continuo a combattere la depressione. È come se la mia vita fosse misteriosamente percorsa da due correnti elettriche: gioiosa positiva e disperata negativa”. La depressione non è solo una donna che piange e si dispera, la depressione ha più facce, più maschere (come quelle che aveva la stessa Sylvia). Ha mille cuori.
Nel film italiano, Nella vita di Sylvia di Alessandro Cane, pellicola per la televisione, girato nel 1979, in bianco e nero, e approdato in TV nel 1980, Plath è completamente diversa. La storia si concentra sugli ultimi mesi di vita di Sylvia, quando dal Devon, dopo essersi separata con Hughes, approda nella casa di Yeats a Londra. A differenza della Sylvia di Gwyneth Paltrow, sempre disperata e sull’orlo di una crisi, la Sylvia di Carla Gravina è molto più risoluta, cerca di porsi degli obiettivi e di portare avanti la sua vita da sola e con i due figli. In Nella vita di Sylvia è molto più plausibile una lenta discesa negli abissi, piuttosto che una follia crescente. Sylvia nel suo ultimo periodo è consapevole del lavoro che sta facendo, delle ottime poesie che sta componendo, allo stesso tempo combatte con una lenta depressione che la porta verso l’apatia e verso la voglia di morire.
“Il mio mondo cade a pezzi, si sbriciola, «il centro non regge più». Non c’è forza unificatrice, solo la nuda paura, l’istinto di autoconservazione. Ho paura. Non ho consistenza, sono vuota. Dietro gli occhi sento una caverna pietrificata, inerte, un abisso infernale, un nulla che scimmiotta. Non ho mai pensato. Non ho mai scritto, mai sofferto. Voglio uccidermi, sfuggire alle mie responsabilità, strisciare di nuovo nell’utero. Non so chi sono, né dove sto andando – e proprio a me tocca rispondere a queste terrificanti domande. Anelo a una nobile scappatoia dalla libertà – sono debole e stanca, mi ribello alla forte, costruttiva fede umanitaria che presuppone un intelletto e una volontà sani e produttivi”.
Alessandro Cane inserisce abilmente nella narrazione le lettere scritte da Sylvia alla madre oltre che la sua poetica per mostrarci i suoi sentimenti, vengono citate Lesbo, Papà, Lady Lazarus e Orlo, la poesia che venne trovata sul tavolo della cucina, accanto al corpo di Sylvia, il giorno del suicidio. Nella pellicola Carla Gravina recita “La malattia mentale è vista come una colpa” e non c’è niente di più vero, Sylvia sta vivendo il suo inferno e non riesce a uscirne.
“Quanto a me, dopo gli otto anni non ho mai conosciuto l’amore di un padre, l’amore costante di un consanguineo… l’unico uomo che mi avrebbe amata con costanza per tutta la vita: una mattina lei è entrata con gli occhi … pieni di lacrime e mi ha detto che se n’era andato per sempre. La odio per questo. […] Era un orco. Ma mi manca. Era vecchio, ma era stata lei a sposare un vecchio perché diventasse mio padre. Tutta colpa sua”.
Il film mette da parte quasi completamente Ted Hughes. Sylvia lo pensa, lo ama ancora, ma è affranta per i tradimenti e per il bambino che Assia, l’amante, aspetta. È un focus tutto basato su di lei, sul suo piccolo mondo di scrittura, dolore e maternità nella sua casa, di disperazione e ricerca di aiuto. La recitazione degli altri personaggi è, però, abbastanza scarna, a eccezione della protagonista, Carla Gravina ci regala una versione di Sylvia che intriga, non è debole e gracile come la Paltrow, ma è forte e scalfita dal dolore allo stesso tempo, su una bilancia che pende tra la rassegnazione e l’adattamento. Ci viene anche mostrato l’elettroshock che Sylvia subisce durante la sua prima crisi depressiva a vent’anni, e anche il radiodramma Tre donne e la sua realizzazione. C’è molta teatralità, ma si tratta pur sempre di una recitazione degli anni Settanta e alcuni dialoghi sono figli del loro tempo: basti pensare alla scena con l’amica Kate sui vestiti e sul catcalling o quando Sylvia sottolinea il genio di Ted, ma del suo di genio non vi è traccia. Su questo lavoro di svecchiamento forse fa meglio Sylvia di Jeffs, anche se dobbiamo essere consapevoli che Sylvia è figlia degli anni Cinquanta e Sessanta, sebbene nei suoi diari sia lucida sul suo ruolo di donna.
“Sono gelosa degli uomini – un’invidia sottile e pericolosa in grado, immagino, di minare qualsiasi rapporto. È un’invidia che nasce dal desiderio di essere attiva e dinamica, non passiva e subalterna. Invidio all’uomo la libertà fisica di condurre una doppia vita: la carriera e la vita sessuale e familiare”.
A livello tecnico, Sylvia di Christine Jeffs è curato nella fotografia, nelle inquadrature, nei dettagli, Nella vita di Sylvia, invece, col suo bianco e nero e in pellicola, è molto più attento ai primi piani su Gravina, all’introspezione che al resto. I due film appaiono quindi opposti, come uno yin e uno yang, due Sylvia che si contrappongono ma che insieme donano un ritratto plausibile della scrittrice, divisa dalla depressione e dalla forza della creatività. La malattia ci ha tolto una delle più grandi menti del secondo Novecento, introspettiva, viscerale, crudele con le sue parole. In una delle ultime lettere a sua madre, Sylvia le scriveva “Sono una scrittrice geniale; me lo sento. Sto scrivendo le poesie più belle di tutta la mia vita; mi renderanno famosa” e aveva ragione. Sylvia e Nella vita di Sylvia sono due delle maschere della scrittrice e in qualche modo, anche se non perfette e piene di difetti, ci avvicinano a lei e al suo mondo.
Leggete Sylvia, guardate Sylvia, lei aveva già visto tutti noi nelle sue parole.
Ilaria Amoruso
Filmografia:
Sylvia di Christine Jeffs (2003)
Nella vita di Sylvia di Alessandro Cane (1980)
Bibliografia:
Diari, Sylvia Plath, Adelphi
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