Sono qui e ti penso, Goliarda.

Mi capita spesso di pensare alla persona che sorregge l’artista, alla sua impalcatura umana, morale.
Con te, questo, è un pensiero che mi smuove e mi diverte.
Quindi, Goliarda cara, stappo un Nebbiolo e iniziamo questo viaggio, ti va?
– Sì.
– Bene. Te la ricordi la tua Catania, di maggio?
– Catania. Che rumore e che silenzio, la mia città. Mi ha amata? Non te lo so dire con certezza. Mi ha vista, spesso, ma non so quanto mi abbia conosciuta, né di maggio né altrove. Una cosa posso dirtela però: io sono fatta anche di parte di quelle vie. Di artigiani, ambulanti che urlano e di prostitute, la mia gente di quartiere
– Che bello il tuo nome, Goliarda, bello e raro.
–  Mi hanno messo nome Goliarda. Mio padre me lo mise, essendo ateo, perché era un nome senza santi. Con questo nome, da bambina, mi sentivo sola: non c’era nessuna Goliarda o Goliardo in tutta Catania e, per me, in tutto il mondo. Cominciai a dire che mi chiamavo Maria: era il nome di mia madre, e quindi non doveva essere un furto troppo rilevante.
– Vuoi parlarmi di tua madre ora, o ci beviamo su?
– Sicuramente è più conosciuta di me, talvolta, non trovi? Studiava, e allora dovevo studiare anch’io per
diventare come lei. La zia Grazia si indignava per come trascurasse i suoi figli: Povera figlia, che unghie! Non è possibile che tua madre non te le tagli mai! Diceva. Oh, ma che razza di mutando porti? Sembri incinta, povera figlia! È possibile che tua madre… Mia madre chi? Rispondevo. Non è stato facile. Del resto, per chi lo è?

– Anche lei ha vissuto la galera.
–  Sì. Per il bene degli oppressi. La odiavo ma la amavo, tanto, perdutamente. L’ho tenuta con me fino all’ultimo giorno, quel 5 febbraio del 1953 in cui la leonessa cedette le armi e morì. Una madre insonne e intelligente. La troppa intelligenza non le consentiva di dormire, mai.
– E tu, in carcere, non voglio sapere cose che so, sarebbe banale e non spreco più tempo consapevole
in cose banali. Cosa hai imparato lì?
–  Lì sai subito chi sarai nella vita, non ti è concesso crogiolarti nel falso problema di cercare la tua identità. Non c’è differenza fra dentro e fuori. Le donne conosciute sono comuni, come quelle che si incontrano per strada. Il carcere è sempre stato la febbre che rivela la malattia del corpo sociale: continuare ad ignorarlo è un male dannato.
– Cosa vorresti fare che non hai fatto?
– Scrivere un giallo? Curare un orto? Viaggiare a piedi? Non ho fatto troppe cose, e non voglio pensarci. E tu?
– Non puoi farmi domande, Goliarda.
– E perché non potrei? Io sono morta e tu sei qui a parlarmi. Cosa è più folle?

Alla fine, ha avuto sempre ragione lei.

Natalia Ceravolo

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