Per una lira è il titolo di una canzone di Lucio Battisti che comincia così: Per una lira io vendo tutti i sogni miei. E poi la voce a strisce di Battisti racconta la storia di qualcuno che a malincuore si distacca da una parte di sé. Ascoltandola, ho sempre pensato a chi scrive. In particolare agli esordienti. Chi, per la prima volta (e spesso per una lira) consegna il proprio destino al mondo. Nell’incertezza e nell’imprecisione, un esordio insegna a scrivere più di un capolavoro (anche quando le due cose coincidono: David Foster Wallace, La scopa del sistema, 1987). Per una lira è uno spazio dove leggendo le nuove voci della narrativa, italiana e straniera, metteremo in luce alcuni aspetti di un romanzo legati al gesto dello scrivere per la prima volta, ovvero alla scoperta della propria voce.

Alessandra Minervini, scrittrice, editor e writing coach. Il suo primo romanzo si intitola Overlove, LiberAria 2016. Il suo sito è alessandraminervini.info. Qui gli articoli pubblicati su exlibris20.


Cesare Pavese, Non ci capisco niente. Lettere dagli esordi, L’Orma 2021

«Il mio carattere era timido e riserbato: macché, io l’ho saputo sforzare alla vita moderna e tutti i giorni ne imparo di più poiché vivo in mezzo ad essa, sempre teso in me stesso, gioendo della mia personalità che sente, comprende, raccoglie.»
Cantore dell’adolescenza e editore di genio, Cesare Pavese (1908-1950) ha fotografato con malinconico e militante realismo il proprio tempo, imponendosi fin da subito come una delle voci cruciali del Novecento italiano. Le sue turbolenti lettere giovanili, spesso autoironiche in maniera sorprendente, compongono un ritratto dei tremori e delle esuberanze di un artista in erba che cerca a «pugni e calci» di trovare la propria strada nel mestiere della scrittura.
https://www.lormaeditore.it/


Lezione n. 27

Caro esordiente, ti scrivo

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La vita e l’opera di Pavese sono intrise di una febbre costante. La febbre pavesiana di non essere abbastanza bravo, abbastanza amato, abbastanza compreso. A lui dobbiamo un modo di scrivere malinconico e mai compassionevole: “Il segreto della vita è di fare come se ciò che ci manca più dolorosamente noi l’avessimo.” A lui non mancava niente, a noi invece Cesare Pavese manca ogni giorno. Manca l’esasperata lucidità dell’adolescenza, quando tutto scorre netto nella testa saggia di chi non è ancora pronto per diventare adulto; manca la turbolenza d’autore che ha nutrito le sue opere. Soprattutto prima che nascessero. Per questo motivo è straordinariamente avvincente la lettura del suo epistolario giovanile, Non ci capisco niente. Lettere dagli esordi, pubblicato da poco da L’Orma Editore, all’interno della collana Pacchetti, dedicata alle lettere d’autore.

Suggerisce bene, nella sua prefazione, Federico Musardo, raccontando il futuro esordiente Pavese come “un artista della parola che seppe trovare formule nuove per rovelli antichissimi“. Le lettere che compongono il libro cominciano nel 1924 e terminano nel 1936, seguendo il percorso creativo di Pavese che ancora adolescente faceva volentieri a meno di fare i compiti di scuola per scrivere e arrivano fino all’anno del suo esordio che avvenne con la raccolta Lavorare stanca.

Le pene del Pavese pre-esordiente non sono molto diverse dagli psicodrammi degli esordienti, o aspiranti, che ho letto, seguito, incontrato in questi anni e su queste pagine di PerUnaLira. È per questo che ho deciso di leggere questo libro ricavandone alcune regole alla Pavese per chi si arrovella nel suo mancato futuro auspicato sfiorato esordio. Questo mestiere, scrivere, è una attitudine, un sobbalzo dello spirito, una prova d’amore prima che una bozza bella e finita in libreria. Non è una garanzia. Leggendo le lettere di Pavese capirete che non siete soli e da qualche parte lo saprà anche lui che solo, in fondo, non lo è da quel 1950, settant’anni fa.

  1. Novembre 1924. (Scrivere) “è una lotta di tutti i giorni, di tutte le ore contro l’inerzia, lo sconforto, la paura.” Ecco la prima cosa da sigillare nelle nostre sudate carte, questa confessione che il giovanissimo Pavese fa all’amico Mario Sturani. Scrivere è una cosa che ti segue, spesso ti insegue. È una lotta tra il bene e il male, come lo sono le relazioni quotidiane. Quelle a cui si tiene. Un giorno si vince, un giorno si perde. Ma se si ama, non si prova un senso di sconfitta. Solo la necessità di un respiro che ogni volta può cambiare, più corto, più lungo. Ci sono delle storie a perdifiato e delle storie che lentamente si insediano nella nostra vita. La scrittura le contiene entrambe. Quando si scrive la lotta è sempre accesa, che si esordisca a 20 anni o a 60. Non è un caso che qualche riga dopo Pavese scriva: “Un sentimento quando tu lo provi è cosa viva.” Ecco detto cosa succede quando si scrive, si sente una cosa viva.
  2. Agosto 1926. “e mi tratti con tutta severità poiché gli ostacoli più sono sodi e più c’è gusto ad abbatterli.” In questa lettera l’adolescente Pavese si rivolge al suo maestro, Augusto Monti poeta e appassionato fomentatore di ideali letterari. Teneramente, sempre con l’umiltà focosa che lo contraddistingue, lo prega di fare dei suoi scritti ciò che è più giusto fare. Essere sincero, severo, attento a non illudere l’allievo. Per chi è molto giovane, non solo di età ma nel rapporto con la scrittura e la pubblicazione, è fecondo avere come riferimento un nume tutelare. Non per forza qualcuno a cui si è devoti totalmente, ma qualcuno del quale si riconosca l’autorevolezza, senza autorità, per far valutare i passi in avanti svolti con la scrittura e ricevere sproni a non smettere di adoperarsi per la stessa.
  3. Settembre 1926. “È una innamorata troppo gelosa l’arte che vuole tutto per sé”. Una sorta di never give up, diremmo oggi aleggia nelle lettere di Pavese dedicate al perpetuo cercare ispirazione, forza di volontà, onere e onori della creazione letteraria. Non è un caso che rivolgendosi al suo amico, Tullio Pinelli, intravede lucidamente la vera natura della scrittura che è una compagna fedele ma parecchio esigente, guai ad abbandonarla. Non è detto che si farà trovare facilmente. Ma badate bene, questo non vuol dire smettere di vivere per scrivere, oppure trincerarsi nelle letture senza soluzione di continuità della vita. In più di una lettera, Pavese sottolinea l’importanza di “marachelle” da giovani per ridursi a non compierle da anziani.
  4. 9 gennaio 1927. “Forse il tuo male è di scrivere versi troppo spesso.” In questa lettera Pavese si rivolge al caro amico rivelando una delle grandi verità, e pericolose trappole, di chi scrive e scrive senza mai mettere un punto. Procrastinando per tempi immemori il giorno in cui riuscirà a decidersi e dare alla luce ciò che scrive. Pavese, ammette nelle lettere, non ha questo atteggiamento. Il suo è più un continuo affogare nelle false partenze, ma non gli appartiene la prolissità, la voracità di parole parole parole che spesso sembra riempire le storie degli aspiranti scrittori ma invece le svuota. Scrivere troppo, senza direzione e dunque perdendo il senso sia del gesto che della storia che si vuole raccontare, è lo stesso una falsa partenza. Tale e quale il flusso incessante di parole, l’ingordigia creativa. Come suggerisce lo stesso Pavese a Sturani nel post scriptum della lettera, l’ideale è: “P:S. Scrivi spesso, spendi poco e attento alla salute.
  5. 18 maggio 1928. “Un tale incessante calvario di tentativi che per lo più falliscono”. Eccola là, direte voi. Ci son cascato di nuovo, direbbe qualcun altro. Ebbene sì. Se vi sentite gli unici soli e disperati, incapaci di scegliere quale storia raccontare o quale finale dare alla propria storia o da che punto di vista raccontarla, vi state sbagliando. Il giovane Pavese, prima di esordire, di questi rovelli ne faceva il pane quotidiano. Certamente meno tecnici e meno pretestuosi di quelli di noi comuni mortali. Ma non meno deliranti e densi di sofferenza. A un certo punto lui dice che non sa nemmeno lui quale “faccia” usare quando scrive. Un’immagine intensa per un autore che non ha mai scritto niente che potesse tradire la sua autentica voce.
  6. Non ci capisco niente”, il titolo della raccolta epistolare non poteva che essere questo. Quando Pavese esordisce, con la raccolta di poesie Lavorare stanca, attende e vive la pubblicazione al confino, in Calabria, in seguito al suo arresto per antifascismo, avvenuto nel 1935. Accoglie la notizia da lì, rinchiuso e lontano dagli affetti, dai lettori, dagli amici. Quel “non ci capisco niente” assume ancora più vigore, per l’esordiente Pavese. Quando si è davanti alla propria opera terminata, in fase di pubblicazione, solo una sensazione è chiara e ferma dentro di noi: non ci capisco niente! Quella sensazione di perdere la terra sotto i piedi, di non vedere la luce, di guidare dentro la nebbia fitta che avevamo quando eravamo alle prese con la stesura della nostra storia è nulla. Nulla rispetto alla paura di non essere degni o di esserlo troppo, nulla rispetto alla grandezza che invece esplode quando abbiamo il nostro libro in mano e sentiamo, come Pavese, “gratitudine per tutto e per tutti.

Piccola bibliografia per chi vuole scrivere



Cesare Pavese, Lavorare stanca, Einaudi 2001
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