Ci sono racconti che, per quanto brevi, riescono a far intravedere luminosi spiragli di trame e concetti fondamentali per i loro autori. Con Barnabò delle montagne e Il segreto del Bosco Vecchio (Mondadori, 1933 e 1935) Buzzati fa il suo ingresso sulle scene del panorama letterario italiano, portando immediatamente il lettore nel proprio universo di uomini ordinari e tempi indeterminati. L’autore, famoso per la propria capacità di inserire il fantastico all’interno di un quadro più straniante possibile, inizia a sfruttare tale prospettiva a partire dal suo primo racconto: il protagonista, Barnabò, è un guardaboschi della Valle delle Grave, impegnato nella difesa di una vecchia polveriera. Pur cominciando a intravedere le potenzialità dell’ambito militare come simbolo di un mondo costituito da gesti ripetitivi e insensati, l’attesa di Barnabò non risulta senza fine come quella del protagonista de Il deserto dei Tartari. I nemici arrivano, ma non il riscatto personale. Alcuni briganti, dopo aver ucciso il capo dei guardaboschi, attaccano infatti la polveriera e si scontrano con i compagni di Barnabò: quest’ultimo, di ritorno proprio da una spedizione non autorizzata, volta alla ricerca degli stessi nemici, invece di intervenire, si nasconde dietro un sasso. Sebbene non scoperto, l’uomo viene cacciato ugualmente dall’ordine per non essersi trovato sul proprio posto di lavoro nel momento dell’accaduto.

Barnabò, in seguito alla sua sconfitta, si rifugia nelle campagne; in poche righe Buzzati trova una ripetitività negli atti che rende il tempo uguale a sé stesso, rivelando un meccanismo profondo, in grado di essere applicato a un numero imprecisato di spazi. La fascinazione dell’attesa tra le montagne non abbandona tuttavia l’animo del giovane uomo, che dopo diversi anni torna in quello stesso sperduto paesino montano. Ora è un semplice custode, appagato dal ritmo della propria vita a tal punto da non cercare nemmeno più il riscatto quando gli si presenta l’occasione. Pur avendo la possibilità di uccidere gli antichi nemici, Barnabò sceglie la vita, arrivando a comprenderne l’unico vero grande evento: la morte. È questo il tema che serpeggia per tutto il racconto, innervando le chiacchiere dei personaggi e comparendo nei momenti di maggiore tensione della trama. È la morte a fare in modo che ci sia sempre un “prima” e un “dopo”. La consapevolezza di cui l’autore vuole dotare i propri protagonisti e lettori si scontra tuttavia con un mondo dai fragili confini, dove il fantastico si insinua con naturalezza: 

«Anche le montagne, col tempo, sono cambiate. Tanti anni prima nei boschi, si trovavano una specie di piccoli spiriti, Del Colle li aveva ben visti qualche volta. Così leggeri, verdi come il prato, potevano essere stati loro a impedire i lavori della strada? (…) è arrivato davanti alla vecchia casa, mentre il bosco si fa buio specialmente dove i rami sono spessi. Del Colle tira fuori di tasca una piccola armonica. Una volta era ben così. Gli spiriti amavano quelle canzoni e dopo un po’, se già era venuta la sera, comparivano tra i tronchi».

Sarà proprio di fianco a quei larici che il capo delle guardie conoscerà la morte – viene sottolineato ancora una volta il tema principale dell’opera –, calato in un’atmosfera a tratti irreale, esattamente la stessa che avvolgerà il protagonista de Il segreto del Bosco Vecchio. Se nel racconto precedente il fantastico compare sporadicamente, interrompendo soltanto momentaneamente la monotonia della vita, in questo l’autore sembra lasciarsi trasportare maggiormente da una realtà immaginaria, accettata e condivisa dai vari personaggi. Anche Sebastiano Procolo ha speso la propria vita nel mondo militare, ma è durante l’ultima fase di essa, il pensionamento, che inizia la sua storia nei pressi di Bosco Vecchio. La morte, ancora una volta, si rivela motore delle azioni, poiché il colonnello non mostra altro desiderio che eliminare il proprio nipote, futuro e legittimo erede dell’intero territorio. Inizialmente, l’uomo sembra voler ottenere il controllo completo della natura, arrivando a sottomettere venti e spiriti del bosco, con il solo obiettivo di trarre guadagno dalle sue risorse. Con lo scorrere delle pagine, tuttavia, è la natura stessa a rivelare il proprio ruolo di giudice supremo, per nulla intimorita dalle smanie di un uomo che nulla, o poco, può contro la sua forza. Il cuore di Procolo si addolcisce, così come i suoi sentimenti nei confronti degli esseri che lo circondano e, pian piano, pur mantenendo una facciata rude e scontrosa, il protagonista non nutre odio nemmeno per il nipote, arrivando a sacrificare la propria vita per lui. In un ambiente di comunicazione ormai costante tra l’uomo e gli elementi naturali, è proprio uno scherzo del vento – impersonificato dal protagonista con il nome “Matteo” – a trarre in inganno il colonnello, che si precipita nel cuore della notte in mezzo alle gelide vette pur di recuperare il giovane travolto dalle nevi. Una cieca disperazione lo assale, mentre il ragazzo si trova in realtà al sicuro nel proprio collegio, altrettanto inconsapevole della sorte dello zio e della fine della propria infanzia. Solo nel momento in cui la verità viene svelata, Procolo si abbandona alla propria eroica, quanto inattesa, morte. 

Anche il protagonista di questa storia si presenta quindi nelle proprie vesti di uomo con debolezze e meschinità, ma questa volta la sua comunicazione con la natura assume un carattere concreto. Il fantastico, prima celato, viene ora mostrato in tutte le sue potenzialità, e il mondo stesso prende parola: esprimono la propria opinione gli animali del bosco, i venti, i geni che abitano negli alberi e anche i mobili della casa si fanno sentire lentamente. Un ambiente in continua trasformazione, talvolta bucolico e talvolta tetro, e quella che potrebbe inizialmente somigliare a una fiaba per bambini si tinge di sfumature inquietanti, grazie a personificazioni di ombre e incubi, di carrettieri imbacuccati di nero e portatori di morte. Le voci del bosco sembrano essere percepite solo per poco tempo, dai bambini e dagli anziani: dopo, per entrambi, arriva un momento di incomunicabilità e incomprensione. Mentre i giovani, nell’arco di una notte, cessano di sentire gli echi degli spiriti, i vecchi si disperdono nei cieli, salutati dai venti e dai bisbigli del bosco, in un silenzioso ballo generazionale, ciclico quanto la natura stessa. 

La morte accompagna tutti i personaggi di Buzzati e le sperimentazioni dei suoi primi racconti sembrano riflettere la ricerca di equilibrio tra le possibili modalità di racconto di questa e l’ambiente fantastico e straniante tutto intorno. E forse, proprio grazie a queste “fiabe per adulti”, sospese in un punto impreciso dello spazio e del tempo – e per questo universali –, Buzzati riesce a farci tornare per un attimo bambini curiosi, in attesa di voci che ci guidino e ci facciano scorgere un po’ più in là, sempre un po’ più in là.

Elisa Tasso

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