È un testo potente ed inusuale quello di Maria Grazia Calandrone, un testo che con grande delicatezza va a scavare nella storia di una donna che nell’Italia degli anni ’60 abbandona la figlia neonata in un parco centrale di Roma e poi si toglie la vita. La donna di cui si racconta è la madre dell’autrice e il libro è il tentativo di ridare voce, corpo e immagini alla sua esistenza, di ricostruirne le scelte e capire perché e come la sua vita sia potuta arrivare ad un così tragico epilogo.

Il romanzo è dunque primariamente la biografia di Lucia Galante, che nasce in una famiglia di contadini a Palata, minuscola frazione di Campobasso; vive un’infanzia e un’adolescenza serena, si innamora, viene sposata contro la sua volontà ad un uomo che non ama in un matrimonio che diventa ben presto violenza. Si innamora, corrisposta, dell’operaio di una ditta edile che arriva in paese per lavori. L’uomo ha già famiglia ma i due decidono comunque di andare a vivere insieme contro le leggi dell’epoca, e poco dopo, di trasferirsi al nord per proteggersi e rifarsi una vita. Lucia nel frattempo rimane incinta e le difficoltà nella realtà milanese aumentano, il compagno Giuseppe non trova lavoro, Lucia non può riconoscere la figlia. Dopo alcuni tentativi estremi di invertire nonostante tutto la cattiva sorte i due scelgono di smettere di lottare. Fanno un ultimo viaggio da Milano a Roma dove abbandonano la figlia avvolta in una copertina a Villa Borghese. Lasciano una lettera per spiegare il gesto e la inviano al quotidiano “L’Unità”. Pochi giorni dopo il Tevere restituisce il corpo di una giovane donna che viene identificata come Lucia Galante e nei giorni successivi il corpo di un uomo il cui riconoscimento non viene confermato.    

Oltre ad essere la storia della vita di Lucia Galante questo libro è anche il racconto del processo attraverso cui l’autrice affronta la ricerca dei tasselli e delle informazioni utili a riportarla sulle tracce della madre. In alcune parti il testo ha l’accuratezza di un lavoro documentario e attraverso il caso singolo di Lucia si arriva a intravvedere il quadro sociale del secondo dopoguerra italiano nel Sud e nel Nord del paese, specialmente in riferimento alla situazione femminile: dalle leggi che tutelano l’unità familiare e il potere dei capifamiglia a discapito dell’autonomia delle donne al riconoscimento dei figli nati fuori dal matrimonio fino al funzionamento delle istituzioni per bambini abbandonati o non riconosciuti. Calandrone ricostruisce tutto attraverso un paziente e metodico lavoro di ricerca che la porta a visitare luoghi, raccogliere testimonianze, certificati, e poi ancora tra archivi, questure e materiale giornalistico: all’epoca la vicenda della madre suicida che abbandona la bimba ebbe una grande risonanza a livello mediatico e se ne occuparono addirittura i quotidiani nazionali- e non per caso fortuito ma per uno stratagemma costruito poco prima di morire dalla stessa Lucia, volto a garantire alla figlia, che di li a poco sarebbe rimasta orfana, una ragionevole sicurezza di essere in qualche modo presa in carico dalla comunità.

L’anima e la vocazione “pubblica”, storica, di questo libro però non si discostano mai dall’anima “privata”. L’urgenza che sta alla base della scrittura di Calandrone è creare un dialogo con Lucia che, paradossalmente, è la persona a lei più vicina (la madre da cui è stata messa al mondo e con cui ha vissuto i primi mesi della sua vita) e contemporaneamente la persona meno conosciuta, da cui è stata abbandonata non una ma due volte, la prima venendo lasciata al suo destino a Villa Borghese e la seconda attraverso il suicidio, che è la privazione definitiva della propria presenza per tutti quelli che, invece, rimangono. Attraverso questo testo Maria Grazia Calandrone, donna cinquantenne con una carriera eclettica, brillante, una famiglia, dei figli, si rivolge alla madre e le chiede: “Chi sei?”, “Cosa ti ha portata a questo?”. Due semplici – ed enormi – domande che non vengono mai poste direttamente, mai in maniera sfacciata, ma avvicinandosi invece alla figura della madre con molta grazia e quasi in punta di piedi. Senza rabbia, rimproveri o giudizi ma con curiosità per tutti gli indizi che trova, immaginando la figura di Lucia fanciulla in mezzo ai campi, cercandone tracce del carattere nelle fotografie di scuola, trovandola innamorata nei racconti dei paesani, poi infelice in un matrimonio non voluto. Ricostruendola testarda e libera nelle scelte anticonformiste che la madre compie e poi trovandola via via sempre più in difficoltà. La descrizione di Lucia da ragazza e innamorata fa parte di alcune delle pagine più suggestive del libro.

Le cose confabulano amabilmente tra di loro, mentre il corpo di una ragazza esiste, occupa uno spazio semplice e vero, che odora di paglia e polvere di terra alzata dal vento, mira il suo sommo bene tra corti di fieno e torna a casa come illuminata dall’interno. In tasca, ha qualcosa che scotta: un filo d’erba, un sasso, un rametto di salvia, un pugnetto di fave prese in ostaggio all’orto di Tonino. È tutto un rapimento, una melassa, un raccogliere indizi. Lucia si fida degli altri, parla sempre di lui, delle tracce di lui nella vibrazione dell’alba, dei dettagli di lui dentro la consistenza del reale. Insopportabile, come tutti gli innamorati. E quante volte in chiesa s’è voltato, e hai visto la giacchètt, e chissà se gli piaccio con la treccia… Nei fatti, Tonino dà ininterrotte prove di gradimento, lo sa tutto il paese che ogni giorno trova una scusa per svolacchiare intorno alla sua bella dal nome che splende: Lucia-chiaro-dell’alba, Lucia che ha il nome inciso sulla fronte con la scheggia di pietra. Lucia non nega niente, guarda in alto a destra, come fa sempre, e sorride, arruffata come una rosa canina. Il suo ragazzo è un vivo, un entusiasta. È l’annuncio di una vita felice.

Ne emerge il ritratto di una donna sognante e coraggiosa, piena di vitalità, che segue i suoi desideri e il suo cuore anche a costo di entrare in conflitto con le leggi dell’epoca. La sua figura viene immaginata con amore, guardata con affetto e seguita con grande comprensione. Fino a permettere a Calandrone di lasciar andare Lucia al suo destino, in pace, nel momento dell’ultima grande scelta che fa, quella di morire.

Dove non mi hai portata è un testo poetico e molto anticonvenzionale. Non contiene versi, tranne in maniera episodica, la poesia sta piuttosto nella ricchezza delle immagini, nella luminosità, nella precisione con cui vengono scelte le parole. La lingua di Calandrone è curatissima e amalgama in un impasto altamente suggestivo termini che provengono da registri molto eterogenei tra loro, termini tecnici, parole desuete, espressioni dialettali, latino e neologismi. “Le cose esistono, e hanno una voce chiara. Per comprendere, basta osservare i fatti, senza sovrapporre ai fatti nessuna intelligenza umana. Lasciarsi attraversare dalle cose, fino a che esse esprimono quel che hanno da dire nonostante noi”. Ed è proprio questa la sensazione che il lettore ha della scrittura particolarissima ed unica di Maria Grazia Calandone, e cioè che segua ed aderisca agli eventi e si lasci da questi condurre, sia per quanto riguarda i contenuti ovvero lo svolgersi dei fatti, che per la forma con la quale racchiude le cose. Calandrone piega la scrittura intera al suo bisogno di seguire il tracciato di questa storia e dunque inventa parole, passa dalla prosa alla poesia e viceversa in modo del tutto naturale, ricostruisce itinerari su mappe disegnate a mano, titola un capitolo “Sch sch sfrusch sfrusc. Condizionali.” e lo termina con “E invece.” Questo approccio di grande libertà nella scrittura unito alla drammaticità della storia generano una grande vicinanza emotiva in chi legge: soprattutto ed anche perché l’autrice affronta esperienze che tutti conosciamo, quali l’amore, la perdita, l’attraversamento della sofferenza, il bisogno di avere un passato, e cerca di dare risposte attraverso quello che definisce “intelletto d’amore”, quello stesso atteggiamento che attribuisce all’agire e alle scelte di Lucia in conclusione del libro.

            “L’amore di Lucia per me, a me in persona sicuramente e semplicemente destinato, sta nel non avermi portata con sé nella morte, sta nel dove non mi ha portata e nel suo avermi riconsegnata alla vita. Alla vita di tutti. Facendo, della mia vita, fin dalle sue origini, vita che torna a tutti.

               Infine, nell’aver sopportato, per quel suo pur brevissimo tratto di sopravvivenza, lo strazio di andarsene lasciandomi nel rischio al quale mi esponeva, abbandonandomi.

In quegli anni, però, si accorda più fiducia ai bambini, e alla vita tutta. La vita fa una musica diversa, basso profondo con piccoli trilli di risate. Chi ha sopportato la guerra, riposa nella giusta convinzione che chi ha voglia di vivere sopravviva a quasi tutto. Che non esista vita senza ferita. Nessuno resta integro, se vive.

               Malgrado questa diffusa saggezza, le ultime volontà di Lucia e Giuseppe sono, comunque, mettere al riparo la vita della figlia, nel miglior modo a loro disposizione e nel miglior mondo da loro immaginabile e, soprattutto, raggiungibile, attraverso un moto interiore che possiamo definire con una sequenza di espressioni d’uso ordinario, tutte improvvisamente vivificate e chiare: «forza della disperazione», «ingegno dei poveri», «arte di arrangiarsi».

               Ma, sopra tutte, splende la luce di un faro: la definitiva formula alchemica dantesca «intelletto d’amore», quel sentire dell’intelligenza che permette a una contadina e un muratore di montare pezzo a pezzo un caso di cronaca, per salvare il salvabile, cioè me, vita lasciata vivere e che deve scampare allo sfacelo.

               Una volta e per sempre, Dante ha trovato il nome
dell’amore immortale dei mortali”      

Lisa Burger 

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