Il taglio, romanzo di Anthony Cartwright pubblicato in Italia da 66thand2nd, è ambientato nel cuore dell’Inghilterra, in quella Black Country delle miniere di carbone, della prima rivoluzione industriale, di quei lavori antichi, da ‘uomini’, che non esistono più o vengono svolti da immigrati (e non importa che siano di seconda o terza generazione: resteranno sempre stranieri). E questo spicchio d’Inghilterra diventa protagonista del racconto, luogo reale, ma anche simbolo di un passato perduto e di una guerra tra poveri che ha sempre più dimensione universale. La rievocazione del passato da una parte  (“non dovremmo rimpiangere il passato, ma non avremmo neanche mai voluto che le cose andassero come vanno ora”, afferma il padre del protagonista) e il conflitto sociale e il riemergere di paure ataviche dall’altra sono i motivi trainanti del racconto: e se la paura in Cassio, a differenza che nei suoi concittadini, non si trasforma in rabbia è solo per una diversa sensibilità, per la sua profonda conoscenza del passato e anche per la sua capacità di guardarsi dall’esterno, come il personaggio di una storia non scritta per lui.

Tutti i capitoli si intitolano prima e dopo e il dopo anticipa il prima e la linea di demarcazione è un evento pubblico, ma anche uno privato: le elezioni per la Brexit e la breve relazione tra Cassio e Grace.

E i due piani, pubblico e privato, si intersecano, perché la storia tra Cassio e Grace è anche un incontro/scontro tra due mondi: lui, operaio squattrinato, ex pugile, nella vita come sul ring più bravo a incassare che a colpire, lei intellettuale, elegante, cosmopolita, di famiglia borghese, in cerca di una verità che non può mai essere unica, che, per lui, rappresenta l’élite, quella che decide per tutti, che non si sporca le mani, che fa il  doppio gioco, che predica il cambiamento, ma rimane saldamente ancorata ai propri privilegi. Se da parte dell’autore ogni giudizio è sospeso e le opinioni dei personaggi sono riferite in maniera neutrale (anche perché, come dice la figlia adolescente di Cassio, il personaggio, probabilmente, più positivo del romanzo, non si ha “il diritto di usare la propria vita come regola assoluta”) emerge, tuttavia, chiaramente, la distanza tra questi due mondi, forse inconciliabili: dove l’una vede lo svolgersi del corso naturale degli eventi, l’altro avverte il complotto dell’élite; dove lei percepisce la sensazione della perdita, lui vive “la perdita concreta. Posti di lavoro, case, sicurezza, tutte quelle robe lì”.

Il tentativo di distacco di Anthony Cartwright è sottolineato dalla scelta di dar vita a un racconto corale, tutto in terza persona. Lo stile si adatta alla narrazione, a volte asciutto, altre ricco di metafore.

Da questo sfondo, i personaggi (i colleghi emarginati di lui, il suo datore di lavoro Tony, uno stronzo razzista che gli ha rubato la famiglia, gli amici di lei e le famiglie di entrambi) emergono a poco a poco, spontaneamente, senza alcuna introduzione, molti senza mai distinguersi chiaramente dal contesto in cui si muovono, ma contribuendo in maniera netta a delinearlo.

Il tempo non ha più uno scorrere lineare, ma è scandito dalla narrazione dei protagonisti e il racconto si rivela circolare, inizia e si conclude nello stesso punto, nello stesso momento, in una sorta di incubo o nella scena di un film, quasi a testimoniare che niente è più reale se non viene documentato. Alla fine anche Cassio, a dispetto del suo credere “che ci fosse qualche verità che la ragione o le riprese cinematografiche non potessero raggiungere”, deve cedere alle leggi della modernità e accettare, suo malgrado, il ruolo di protagonista.

Fabio Sarno

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