Questa volta ho deciso di consigliarvi non uno ma ben due romanzi, due romanzi che già di pregevole hanno i titoli: Orfeo in Paradiso e Il Velocifero [1].

Mi sono deciso a parlarvi dei lavori di Luigi Santucci sia perché l’avevo in qualche modo annunciato in altri pezzi di Strabook! ma soprattutto perché Santucci fa parte di quel novero di scrittori italiani che, in un’editoria “senza più catalogo” (come giustamente racconta Fulvio Panzeri in questo articolo su Santucci del 2010 di cui condivido praticamente ogni parola) stiamo rischiando di non consegnare alle future generazioni di lettori facendo un grande torto alla nostra letteratura.

L’articolo di Panzeri usciva in occasione della ristampa da parte dell’editore Marietti dellOrfeo in paradiso nel 2010 dopo che per anni questo libro delicato e stupefacente non era stato più ristampato dagli Oscar Mondadori.
Questo mio suggerimento di lettura invece esce casualmente dopo che sempre lo stesso benemerito editore ad ottobre 2018 (2018 che è anche l’anno del centenario della nascita di Santucci) ha mandato in libreria dei racconti di Santucci con il titolo Gli Scampati e altri racconti inediti.

Io però mi voglio soffermare sul fatto che, tra i numerosi libri di Santucci, i due citati nel titolo sono quelli che per me non possono assolutamente continuare ad essere ignorati e devono stare in ogni libreria, in particolare se ci permettiamo di continuare ad avere i libri che attualmente ci sono in libreria, libri che hanno persino difficoltà, per quanto mi riguarda, a passare per libri scritti in italiano, dato che sembrano più scritti per il pubblico televisivo delle “peggiori” fiction italiane, tanto per andarci leggeri.

Tornando alla letteratura di una certa sostanza e una certa qualità mi auguro che Marietti o qualche altro editore dallo sguardo lungo ripubblichi anche libri che non ho ancora potuto leggere di Santucci come i racconti de Lo zio prete  o un curioso In Australia con mio nonno che vorrei tanto poter sfogliare per qualche astruso motivo che non ancora conosco.
Santucci è stato scrittore di un certo successo, tanto da vincere anche il premio Campiello, ma di sicuro negli anni ha scontato in qualche modo l’etichetta di scrittore cattolico che gli hanno dato e probabilmente anche quella di “manzoniano”.

Manzoniano e cattolico, ecco due esempi di come l’uso delle parole dovrebbe essere misurato. Perché nato Milano come Manzoni allora manzoniano? Perché attenzione attenzione ci sono dei preti nei suoi libri quindi è manzoniano? E’ uno scrittore cattolico perché un senso di religiosità, di Dio, di catechesi traspare o viene narrato nei suoi libri?

Ecco, io semplicemente vorrei dire che c’è ben altro nei libri di Santucci, a cominciare dall’uso della lingua. Averlo confinato in anni passati e forse anche oggi in qualche casella lo ha sicuramente allontanato dai lettori, perché se sicuramente Santucci sarà stato cattolico (io credo in Dio e anche nella parola sembra dicesse) o anche ammiratore del Manzoni o qualsiasi cosa egli abbia pensato detto o fatto in vita i suoi romanzi, ad esempio questi due, hanno un respiro così ampio da offrire ai lettori che volessero avvicinarsi a loro il piacere di una lettura composta, intrigante, saggia, avventurosa, feroce,  malinconica, vicina all’uomo e al mistero che rappresenta con la sua mente e il suo cuore.

Dei due romanzi, Il Velocifero (1963) è un romanzo che dopo le prove giovanili dei due libri difficilmente reperibili che prima vi citavo, apre una squarcio sulla Milano della belle epoque in un romanzo familiare pieno di personaggi e accadimenti piccoli e grandi che grazie alla perfetta mimesi che opera in ogni scritto la lingua di Santucci ci delizia e ci irretisce. Se il racconto ci parla di un ambiente ormai lontano da noi, gli echi familiari, le vicende e il ritratto interiore ed esteriore che lo scrittore riesce a darci dei suoi personaggi ce li avvicina e ce li rende partecipi come pochi scrittori sanno fare.

Santucci ha questa abilità di usare una lingua asciutta ma ricca allo stesso tempo, misurata in ogni dettaglio e contemporaneamente pronta ad esplodere nelle sue atmosfere quasi languide, in definitiva una lingua unica che solo i grandi scrittori riescono ad avere  e a connotare come voce unica in ogni storia che ci raccontano, anche nelle più diverse.
L’Orfeo in paradiso (1967) è un romanzo, se possibile, ancora più ambizioso nella sua naturalezza espressiva. La vicenda prende avvio tra le guglie del Duomo di Milano con un uomo che sta per gettarsi di sotto e invece si ritrova, con il più classico degli escamotage narrativi a rivivere (rivivere per davvero) il passato, precisamente il passato della madre appena morta, dalla sua nascita.

Un simile plot narrativo capirete che incontra il notevole rischio di finire, se ad esempio scritto da un autore odierno, in una specie di sketch di avanspettacolo da anni del dopoguerra, ma naturalmente la grazia della scrittura di Santucci ci definisce invece un percorso lento e fumoso di un  narrare che ha in qualche modo un’assonanza clamorosa con le atmosfere de Il Maestro e Margherita (come altrove già raccontavo)  che esce in prima edizione italiana, tra l’altro, praticamente in contemporanea al libro di Santucci.

Orfeo in paradiso e Il Velocifero sono due libri che hanno la misura e il passo dei libri importanti, belli, letterariamente densi di “momenti” che ricadono nel linguaggio e nel pensiero perché pregni di significati, desideri, assonanze, misteri, sospensioni e disvelamenti, come solo i grandi romanzi sanno fare.

Non possiamo dimenticarci di autori italiani come Santucci, o come il Mario Pomilio del Quinto Evangelio,  come Piero Chiara, come Sergio Atzeni…), autori diversi accomunati dal bene prezioso di averci dato una lingua importante e dei libri  che rimarranno accanto ai lettori a dispetto dei ripetuti tentativi degli editori e del mercato editoriale di cancellare tutto ciò che non è facilmente “consumabile”. Dobbiamo riscoprire questi libri, dobbiamo rileggerli, dobbiamo consigliarli, e ogni tanto dobbiamo anche pretendere di andare oltre i pensieri di una critica troppo etichettatrice o peggio svagata e persino incapace di scegliere in autonomia ciò che legge e critica. Dobbiamo anche recuperare il rapporto con i libri, con i testi, e non con il “personaggio autore” durante le presentazioni e i festival che da anni ormai ci obbligano a sorbirci senza motivo.

Santucci è uno scrittore importante perché la sostanza della sua scrittura è fatta di un vero confronto con la parola, un confronto che forse viaggia su due temi principali che riecheggiano anche in questi due romanzi: il Passato e Il Male, due concetti su cui Santucci costruisce il perno del suo riflettere nel raccontare.

Ma c’è una terza cosa che colma i romanzi di Santucci più di ogni altra cosa, e questa cosa si chiama Grazia. La Grazia, che alcuni hanno forse inteso come qualcosa di divino legato alla religiosità, io la intendo piuttosto come sembra già emanare e procedere dalle parole che Santucci pare aver detto e che evocavo all’inizio “Io credo in Dio ma anche nella parola”, perché a mio avviso in molte delle parole che ci ha intessuto sotto gli occhi questo scrittore la grazia è riuscito ad infonderla davvero. E non è cosa da poco.

Simone Battig


[1] Il Velocifero, come detto nella quarta di copertina dell’edizione Oscar Mondadori, era la diligenza per viaggi celeri utilizzata negli ultimi anni dell’Ottocento, una diligenza sostanzialmente con meno fermate di quelle normali.