Una bambina che insegna a un pollo a camminare all’indietro, nel rigoglio di verde della sua fattoria a Milledgeville, Georgia, e che, anni dopo, diventerà una scrittrice: ricominciamo da qui. Quella bambina si chiamava Mary. Mary Flannery O’Connor.

Addestrare un pollo: un piccolo, grande prodigio.

E infatti, come dicevo la volta scorsa, la rivista Pathé News inviò un fotografo laggiù in Georgia, in quel rigoglio di verde, per documentare la cosa, una notizia che aveva già fatto il giro di molti giornali.

Posseggo cinque galline (insieme a un cane e a due gatti) e vi assicuro che sono del tutto refrattarie a ogni principio d’ordine che non sia il loro. Provare a convincerle a fare ciò che vorremmo sembra davvero impossibile. Ma quella bambina ci era riuscita. Erano i primi anni ’30. Poi, come racconta lei, il pollo morì: forse non resse la fama.

Poco dopo morì, e non c’è da stupirsene.

Potremmo pensare a qualcosa di eccentrico, di molto curioso, anche un po’ esotico (sebbene si trattasse di un pollo e non di un animale dai molti colori sgargianti: insomma, un pollo è pur sempre un pollo).

Ma quel prodigio, quell’unicità, mi pare adesso un segnale. Mi pare un segno. Al di là dell’eccentrico e del pittoresco – di cui non sappiamo che farcene – ho l’impressione che si sia trattato di un fatto significativo, addirittura essenziale, rispetto a ciò che sarebbe venuto in seguito: la vita adulta di Mary Flannery, purtroppo breve, nella scrittura, e quello che lei ci ha lasciato.

Permettetemi di specificare che la sua passione per i polli, e in seguito per i pavoni, si tramutò molto presto – lo dice lei stessa – in vera e propria ricerca. Una ricerca: parola interessante, e inaspettata, considerato che non si occupava di zoologia. Ma sentite questo episodio:

Un giorno la compagnia dei telefoni aveva mandato un addetto a ripararci l’apparecchio. Finito il lavoro, l’uomo, un tipo grande e grosso dalla faccia circospetta, mezza coperta da un casco giallo, si trattenne per tentare di convincere con le buone un pavone, rimasto a osservarlo, a fare la ruota. Voleva aggiungere questa esperienza alla tante altre che, a quanto pare, aveva avuto. “Forza, bello”, diceva: “Facci vedere qualcosa, dai, avanti, su con quella coda, su!”.

Il pavone ovviamente, non lo degnava di uno sguardo.

Che cos’ha?”, chiese l’uomo.

Non ha niente”, risposi. “Vedrà che fra poco la fa, la ruota, basta aspettare”.

L’uomo rimase a inseguire il pavone per un’altra quindicina di minuti, poi, scocciato, se ne tornò al camion e mise in moto. L’uccello si scosse e la coda si sollevò a incorniciarlo.

La sta facendo!”, gridai. “Ehi, aspetti! La sta facendo!”.

Il tipo fece inversione con il camion, proprio mentre il pavone si girava e gli si parava davanti con la coda spiegata. Una ruota perfetta… Mi avviai verso il camion per cogliere la reazione dell’uomo a quella vista.

Era immobile, concentrato a fissare il pavone, come se stesse cercando di decifrare una scritta minuta in lontananza. Dopo un attimo, il pavone abbassò la coda e si allontanò impettito.

Be’, che ne pensa?”, chiesi.

Mai viste zampe tanto lunghe e tanto brutte”, disse l’uomo.

Vedete? Ho evidenziato alcuni passaggi che mi sembrano importantissimi per riuscire a comprendere il senso di quella ricerca, e come quest’ultima sia significativa, centrale, rispetto alla scrittura di Mary Flannery O’Connor – rispetto al modo in cui lei vedeva la scrittura.

Ma prima occorre un altro passaggio.

C’era, c’è e ci sarà, una cosa che una scrittrice o uno scrittore dovrebbero sempre, secondo lei, affinare (è necessario). La chiamava visione anagogica. Un nome altisonante, d’accordo. Non scoraggiamoci.

Si tratta di questo:

Il tipo di visione che lo scrittore di narrativa deve avere, o sviluppare, per accrescere il significato della propria storia è chiamata visione anagogica, cioè capace di vedere diversi livelli di realtà in un’immagine o in una situazione.

Facciamo un esempio: nella mia vita, una tazza è una tazza.

Come direbbe Heidegger, il suo essere si esaurisce nella sua funzione, la tazzosità: il fatto che possa accogliere un liquido. Al di là di quella funzione, non c’è nient’altro, in fondo (e questo fa la differenza, secondo Heidegger, tra il mondo degli enti e quello degli esser-ci, cioè di noi esseri umani, che non ci esauriamo in una funzione).

Ebbene, provate a portare una tazza nella pagina di un racconto o di un romanzo. Provate ad affidare quella tazza alle mani di una scrittrice o di uno scrittore: vorrà dire di più della tazzosità.

In un racconto o in un romanzo, la tazza sarà in relazione con le altre cose presenti in scena, ovviamente (nulla, nella scrittura, dovrebbe trovarsi dove si trova per puro caso); sarà in relazione con il personaggio che la sta guardando, ad esempio (come la guarda, e perché? Che significato ha quello sguardo?). Insomma, vorrà dire di più. Ci saranno diversi livelli di realtà in quella “semplice” tazza.

Potremmo anche, in un certo senso, arrivare a definirla un simbolo, il simbolo di qualcos’altro, senza però calcare troppo la mano (la questione dei simboli è molto complessa, e non può essere semplificata così).

E qui arriviamo al cuore della scrittura di Mary Flannery O’Connor, che da bambina insegnò a un pollo a camminare al contrario (soltanto lei poteva riuscirci).

C’è, dietro quel pollo, qualcosa d’altro appunto, se proviamo ad applicare quella che abbiamo chiamato visione anagogica. Così come c’è dell’altro nell’episodio dell’uomo della compagnia telefonica e del pavone testardo.

Sostituite, per un momento, al pollo e al pavone la parola mistero. Provate, ad esempio, a rileggere l’episodio che ho qui trascritto (da Il territorio del diavolo, pubblicato da Minimum Fax, libro imperdibile, necessario, per chiunque scriva o voglia farlo), alla luce di questa sostituzione.

Esiste un mistero (il mistero della nostra posizione sulla Terra, lo chiamava lei, incarnato nei personaggi di cui raccontiamo le storie). Se ne sta lì, vicino a noi e insieme lontano. Arriva qualcuno, un curioso, e gli dice: “Fammi vedere come sei fatto. Su, coraggio, fammi vedere, non ho mica tempo da perdere, io, ho altro a cui pensare”.

Il mistero non muove un muscolo, indifferente alla curiosità. Ma poi invece si mostra, per un istante, all’improvviso, proprio quando il curioso se ne sta già andando. Il punto è che, anche se quel curioso si voltasse a guardarlo, se si voltasse a guardare il mistero, non lo capirebbe, non gli piacerebbe.

E invece lei, Mary Flannery O’Connor, viveva insieme al mistero (chi siamo, davvero, qui sulla Terra? Chi siamo? Chi siamo? Chi siamo? Chi siamo?), ed era riuscita ad ammaestrarlo, anche se solo una volta.

Non basta la curiosità, proprio no. O, almeno, nella scrittura non basta. Non c’è niente di esotico, niente di comodo. Quel mistero non è un’esperienza tra tante, da aggiungere alla nostra piccola lista.

È l’esperienza: è il senso profondo del gesto della scrittura, della ricerca in cui consiste.

Se così non fosse, se fosse solo l’oggetto di una curiosità tutta superficiale – qualcosa che vuoi vedere, come la coda di un pavone, perché è una cosa carina, per poi girarti e andartene – allora, be’, che andasse al diavolo, no?

Sì, che vada al diavolo, Mary, se è solo questo.

Ma non è solo questo. Quel mistero non è una cosa carina. Non è graziosa, e non è comoda, facile, a portata di mano. È frutto di una ricerca durissima, (scrivere è quella ricerca), una ricerca che chiede una vita – per quanto breve, come la tua. Abbiamo capito, Mary.

Così, torniamo indietro, torniamo a quella bambina a Milledgeville, Georgia, nei primi anni ’30, nel rigoglio di verde della sua fattoria.

Capite perché vi ho detto che l’ammaestrare quel pollo mi pare un segno – il segno del suo destino? Un pollo che riesci ad ammaestrare ma che poi muore, subito dopo, quando diventa l’oggetto di semplice curiosità (il fotografo di Pathé News).

Poco dopo morì, e non c’è da stupirsene.

Amo moltissimo quella bambina, e amo da più di vent’anni (non c’è da stupirsene) la donna che è diventata. Condivido, indegnamente, il senso della sua ricerca. Non nasce ogni giorno, una scrittrice così.

E penso ai polli e ai pavoni, i re degli uccelli (il grande mistero), al loro coro giubilante, un coro misterioso che proviene dallo stagno, dal fienile e dagli alberi intorno alla casa, intorno ad Andalusia.

Quella bambina lo sente, e sa di cosa si tratti. Continuerà a sentirlo fino alla fine.

Ho intenzione di tenere duro, ha scritto in Nel territorio del diavolo, e di lasciare che i pavoni si moltiplichino, perché sono sicura che, alla fine, l’ultima parola è dei pavoni.

L’ultima parola è sempre dei pavoni, Mary.

Per riuscire a vederli fare la ruota devi aspettare, aspettare, aspettare – essere lì, non andartene. C’è una fortezza da presidiare. Vogliamo chiamarla vita? Vogliamo chiamarla scrittura? Entrambe le cose: è questo il punto.

Nota a margine: il viaggio a Milledgeville finisce qui. Montiamo a bordo del nostro vecchio pickup e andiamo via. Mary Flannery alza la mano per salutarci. Sorride. Ha un libro sulle ginocchia, gli occhiali sul naso. Resta da sola, su una sedia a dondolo, a presidiare la sua fortezza. Qualcuno deve pur farlo, qualcuno che ne abbia il coraggio. Tra mille definizioni possibili, ecco la vera (per me) definizione di letteratura.

Un ultimo cenno, ancora un sorriso.

Arrivederci.

Elena Varvello

Milledgeville, Georgia (prima parte)

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