Niente di vero è il quarto romanzo di Veronica Raimo, che, dopo la narrazione distopica e sociologica di Miden e le filastrocche erotiche de Le bambinacce, rappresenta una scelta del tutto nuova, sovversiva rispetto al classico memoir famigliare.

Perché pur scritto in prima persona non è il diario di una famiglia, né la fedele e reale riproduzione di quello che realmente è successo: il titolo, gioca esattamente su questo elemento (per molto tempo il titolo del libro è stato Letà dellimpostura).

Nella mia famiglia ognuno ha il proprio modo di sabotare la memoria per tornaconto personale. Abbiamo sempre manipolato la verità come se fosse un esercizio di stile, l’espressione più completa della nostra identità”. Memorie falsate, intrecci narrativi e la vita vera: ciò che viene fuori è il racconto cinico, ironico e dolce al tempo stesso, dell’ossatura emotiva e non solo di una donna, dei suoi dolori, della sua noia e delle sue vocazioni, delle sue amicizie e della sua avversione per certe dinamiche, certi cliché.

La noia è uno di questi.

Quando finalmente arrivò la scoperta dei libri, non fu una forma di evasione, piuttosto una rasserenante coalescenza di noia. Riuscivo quasi a visualizzarla, bianca e melmosa: leggere era come sprofondare in un acquitrino di latte”.

La condizione della noia, di cui è ammantata l’infanzia della protagonista, viene rivista come uno stato che poi diviene non il generatore del vuoto, ma condizione della vita che si può vivere nel segno del pieno e non con l’identificazione del tempo perso o della staticità.

Il romanzo è catturante per lo stile e per la rapidità narrativa e frammentata che entra nella mente come schegge, ma, anche per l’effetto dello straniamento che provoca: “una serie di artifici linguistici con cui lo scrittore rivela aspetti inediti di una realtà nota”.

Si sorride, poi subito dopo ci si immalinconisce, poi si ride di nuovo.

Il nodo è che ognuno di noi, con storie famigliari differenti e appartamenti diversi, città diverse,  è cresciuto inventandosi una spiegazione al complesso mondo delle radici da cui veniamo, collegando pezzi e reggendo agli urti, alle regole e alle contaminazioni inevitabili.

Veronica Raimo è abile: la scrittura qui è più forte della storia stessa.

E rende e restituisce il peso di certe esperienze, anche le più dolorose come l’aborto, la malattia e la morte del padre.

O le più divertenti e dissacranti come i rotoli dello Scottex che l’avvolgono per una intera estate da bambina per guarire da una reumatite, la fuga da casa miseramente fallita, la vecchia macchina aziendale del padre,  la “volvaccia”, che diventa l’auto delle emergenze, degli amici, dei momenti spensierati o difficili.

Penso solo che è la volvaccia e che chiunque può prenderla e dimenticarci qualcosa, rovesciarci qualcosa (…). E penso che continuerà a invecchiare, il grigio antico diventerà ancora più antico, una patina di deterioramento che non si nutre di nostalgia, che poi se ne andrà in malore e un giorno finirà allo sfasciacarrozze e di sicuro non ci sarà nessuno a farle visita o portarle dei fiori, ma magari ci sarà qualcuno che avrà bisogno di un motore o di uno sportello. Vorrei tanto che tutto il passato funzionasse così”. In questo passaggio avviene una delle epifanie migliori del romanzo: disinnescare la retorica sul passato e sulla memoria quasi inviolabile e sempre preziosa, per lasciare il posto a un passato polifunzionale, parte di un percorso.

E tra deportazioni nel cuore garganico della Puglia, dove vivono progenitrici interessate alla crescita e alla misura dei seni, fratelli geniali e complici, Radio3 e una madre che telefona ovunque in cerca dei figli,  Ventotene, anfibi persi in aereo con le amiche, nonno Peppino e gli scatti di spalle, il romanzo procede per “frame” tragicomici, di una sorta di mitologia domestica e di amicizia.

Poi c’è l’amore. Certo.

Tutti i miei innamoramenti si nutrivano di solido platonismo. Non a caso, l’anagramma del mio nome è “invocare amori”, cioè non viverli”.

L’autrice passa dagli amori adolescenziali, alla sua prima esperienza di convivenza, all’instaurazione del rapporto più consolidato che attraversa delle fasi delicate, talvolta dolorose.

La scoperta del sesso senza mai aver avuto un’educazione sessuale come era consueto nell’educazione degli anni ’70-’80, il “lasciarsi andare”, il legame con le amiche a cui è dedicato il romanzo, le ferite che i rapporti lasciano come scie elettriche.

Usavo i libri per schermarmi, sottraevo le parti piú fragili, tenere e buffe di me stessa”: nella vita invece ci sono tutte, ci compongono, e l’autrice ha saputo renderle parlando della costruzione della sua personalità, non legando tutto alla verità assoluta, ma alla contingenza.

Antonella De Biasi

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