Non so esattamente cosa mi abbia spinto a scrivere di un oggetto – non del tutto inanimato – quale lo specchio. Fino a questo momento non avevo mai riflettuto sullo stretto legame che da sempre mi unisce a lui.

La letteratura – soprattutto quella per bambini – concede allo specchio una funzione magica, ossia quella di un portale attraverso cui è possibile penetrare in un mondo “altro”, magico rispetto alla – troppo spesso – asettica realtà.

Tuttavia, se ci fermassimo solo un attimo a pensare allo speculum, ci renderemmo conto che, probabilmente, esso ha per noi – quotidianamente – una funzione ben più catartica e rivelatrice.

Partiamo dal presupposto che lo specchio dica la verità. Esso non traduce. Registra ciò che lo colpisce così come lo colpisce. Esso dice la verità in modo disumano, come sa chi – allo specchio – perde ogni illusione sulla propria freschezza. Ma è proprio questa accalorata natura olimpica, animale, disumana degli specchi che ci permette di fidarci di loro.

(Umberto Eco, Sugli specchi, 1985)

È da questa fiducia che, probabilmente, nasce l’inconscio bisogno di rivolgerci a lui quando ci sentiamo lontani dall’avere una serenità interiore. In questa prospettiva, lo specchio assume i caratteri di uno strumento della conoscenza, di una vera e propria proiezione di ciò che accade dentro di noi.

Doveva avere questa valenza lo specchio anche per Pirandello, Sereni e Pasolini. Tutti accomunati – anche se per ragioni ben diverse – da una profonda crisi dei vecchi valori, utilizzano lo specchio come mezzo attraverso cui prendono coscienza di quanto stia accadendo in loro.

In questo modo, lo specchio – seppur appena accennato nell’economia del testo – diventa elemento centrale e necessario, perché è proprio dal confronto che il soggetto ha con lui che l’io giunge ad una presa di coscienza determinante per la propria esistenza.

Che fai? – mia moglie mi domandò, vedendomi insolitamente indugiare davanti allo specchio.
Niente, – le risposi, – mi guardo qua, dentro il naso, in questa narice. Premendo, avverto un certo dolorino.
Mia moglie sorrise e disse:
– Credevo ti guardassi da che parte ti pende
.

(Luigi Pirandello, Uno nessuno e centomila, 1926)

Sin dall’incipit del romanzo – luogo del confronto tra l’io e lo specchio – Pirandello giunge ad una vera e propria crisi dell’identità.

Cominciò da questo il mio male. Quel male che doveva ridurmi in breve in condizioni di spirito e di corpo così misere e disperate che certo ne sarei morto o impazzito […].

Da quell’iniziale rivelazione, Vitangelo scopre che ognuno lo vede in modo diverso, e che esistono centomila versioni differenti del suo Io, centomila possibili identità; alla fine, perduto ogni suo avere e distrutta ogni sua identità, è creduto pazzo, abbandonato da tutti, e diventa finalmente “nessuno”. Un “nessuno” moralmente migliore dell’uno inconsapevole dal quale è partito, perché libero dalle maschere imposte dagli altri.

Ecco che lo specchio diventa mezzo di disvelamento del negativo, ponendo così l’io nella condizione di dover constatare che l’immagine riflessa nello specchio non fa altro che opporsi al modo in cui egli si era – fino ad allora – percepito. 

Accade lo stesso a Pasolini in Petrolio (1975) e a Sereni nel Il sabato tedesco (1980), entrambe opere che coincidono con l’epilogo del loro percorso poetico ed esperienziale.

Gli autori, infatti, giungono nelle loro ultime opere al compimento delle loro riflessioni e dei loro tentativi – fatti attraverso la letteratura – di instaurare un nuovo rapporto con il presente, nonostante l’evidente difficoltà che entrambi avevano nell’aderire ad esso.

Sia per Pasolini sia per Sereni lo specchio costituirà elemento necessario per il raggiungimento di una definitiva presa di coscienza del sé e della realtà circostante. È da questo confronto, infatti, che l’io percepisce ciò che fino a quel momento era latente, il cosiddetto rimosso.

Andò dritto in camera e si spogliò, guardandosi al grande specchio disadorno dell’intimità virile. Subito vide che cos’era successo di lui. Due grandi seni gli pendevano – non più freschi – nel petto; e nel ventre non c’era niente: il pelame gli scompariva tra le gambe, e solo toccandola e allargandone le labbra, Carlo, con lo sguardo lucido di chi ha imparato da un’esperienza di bandito la filosofia del povero, vide la piccola piaga c’era il suo nuovo sesso.

(Petrolio, 1975)

Carlo secondo – l’unico elemento vitale della narrazione fino a questo punto – si accorge guardandosi allo specchio di essere stato castrato, perdendo così la libertà sessuale di cui aveva goduto fino ad allora.

La perdita del genitale maschile diventa metafora dell’impossibilità – secondo Pasolini – di vivere l’esperienza del presente, inteso come spazio-tempo in cui autenticità e purezza convergono.

Nuovamente lo specchio diventa elemento imprescindibile nella narrazione, perché è grazie a lui che l’io si rende finalmente conto di quanto sia difficile far sopravvivere questo ideale di vita in un mondo in cui a dominare è il solo consumismo.

Infine, tale difficoltà si concretizzerà nel romanzo con la castrazione volontaria e consapevole del secondo protagonista, Carlo primo e ciò segnerà il definitivo disincanto dell’ultimo Pasolini.

È lo stesso per Sereni:

Al chiarore incerto di prima mattina dalla gelida profondità dello specchio di una stanza d’albergo si fa strada contro il mio volto supposto il mio volto vero, la faccia che avrò tra qualche anno e che mi sta raggiungendo alla chetichella, a mia insaputa fino a poche ore fa.  

(Il sabato tedesco, 1980)

Vittorio Sereni si trova in un albergo e lì – lontano dalla realtà quotidiana – si rende conto di un fatto che solo in quel momento acquista consistenza ai suoi occhi: il sopraggiungere della vecchiaia.

Sereni ha impiegato metà della sua esistenza – dagli anni Quaranta in poi – a instaurare un nuovo rapporto con la collettività attraverso la sua letteratura. Ha cercato per quarant’anni di ricordare agli uomini – suoi contemporanei – la necessità di ricordare e, di conseguenza, imparare da essi, i fatti accaduti durante la Seconda Guerra Mondiale.

Tuttavia, dal confronto con lo specchio si rende conto che non c’è più tempo per reagire, è tempo di deporre le armi e rassegnarsi a ciò che è e che non può essere cambiato.

Per concludere, lo specchio acquisisce in questi luoghi letterari il potere di svelare la verità, quella che gli autori serbavano inconsciamente dentro di sé, ma che solo nel loro riflesso sono riusciti a vedere davvero.

È qui che prende maggiore forza l’etimologia greca del nome: spektomai «io vedo».

Elemento complesso, poliedrico e misterioso, lo specchio diventa talvolta necessario per infondere quel po’ di coraggio per accettare una realtà che facciamo finta di non vedere o semplicemente per guardarci come fino ad allora non avevamo il coraggio di fare.

Anna Rita Ambrosone