Come sarà diventato il futuro degli altri? Come vivranno le loro vite al di la delle immagine patinate dei social?

Alzi la mano chi non si è chiesto che fine ha fatto quel compagno di banco che aveva tutti dieci e poi si è trasferito in un’altra città, la coppia affiatata all’ultimo anno di liceo, fidanzati a Vienna in gita di istruzione, o quella compagna bellissima, del collettivo all’ingresso del laboratorio di ceramica.

La sensazione che accompagna la lettura di Dimmi di te, diciassettesimo libro di Chiara Gamberale, edito da Einaudi e già best seller è quella di un reportage al contrario: pagina dopo pagine l’autrice ci prende per mano e ci mette di fronte ai protagonisti della sua vita passata, i miti della sua giovinezza, quelle e quelli che all’epoca pareva avessero il mondo in tasca e fossero destinati a una vita felice e soddisfacente.

E lo fa con una scrittura intimista, svelta e densa che entra subito in mente e con cui ci si sente allineati.

La protagonista incontra fisicamente i personaggi che hanno abitato la sua giovinezza: li intervista, li indaga, li osserva e a tutti chiede semplicemente “Dimmi di te”.

La domanda-titolo irrompe già nella testa-lettrice: si tratta di qualcosa che non siamo quasi più abituati a sentirci dire, perché tutto è riversato nell’individualismo sfrenato, dove l’ “Io” ricorre moltissimo e copre il “Noi”.

“Da dentro parte, dentro arriva, striscia. Le passioni di cui vorremmo fare a meno, ma ci ricordano chi siamo, i segreti che rodono le apparenze, i tranelli che ci gioca la nostra infanzia, le voglie, le paure e le alchimie di tutte le relazioni, le coazioni a ripetere, lo stupore, il corpo degli altri, quando annulla le distanze col nostro, le parole quando diventano sante e cominciano ad avere a che fare più con gli odori che con i suoni.
Lo scompiglio. Come farsi strada nella tempesta”
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E certo che si prova a farsi strada nella tempesta, anche se la protagonista si sente più in una palude presente, in cui non le succede nulla di straordinario, nulla che valga un tuffo al cuore e o di essere trascritto. Tutto inizia con un trasloco in un quartiere che per buona metà del libro induce al lapsus: Trieste invece è Triste.

Il luogo dove la Chiara bohémienne deve cedere il passo alla Chiara adulta, madre di Bambina, che usa la parola “Bap” come fosse “Abracadabra” e tutto inizia o tutto finisce così, i racconti, i resoconti, le confidenze nella vasca da bagno.

La genitorialità espressa da Gamberale è attuale e calda allo stesso tempo: si mette in discussione, prova a crescere e ad essere all’altezza del suo nuovo ruolo. E le piace.

Scrivere era la mia certezza, tutte le mie costanze, il mio unico rimedio all’esistenza. Finché non era arrivata Bambina”.

La protagonista è quindi una madre single, il prototipo di una famiglia mononucleare che copre il 17,3% delle famiglie secondo i recenti dati Istat e che configge con il modello di famiglia “tradizionale” che gli slogan governativi fanno passare come giusta e diffusa. Invece Chiara come nel migliore dei quadri sociologici attuali non ha un compagno/marito, cresce da sola sua figlia che vede il padre una volta al mese perché abita in una città diversa e viene aiutata dalla forma più calda di welfare: i suoi genitori, i nonni di Bambina.

Sarà al quartiere Triste, in una delle sue giornate tutte uguali che incontra Raffaello, un suo vecchio compagno del corso di teatro ai tempi del liceo. Parlare con lui fa partire la scintilla narrativa: l’idea di unire le voci, tutte distinte con vite ovviamente diverse, personalità differenti, in un impianto romanzesco. La protagonista si muove per ritrovare quelle che definisce le “stelle polari della sua adolescenza perduta”. Dopo Raffaello c’è l’amore mancato del liceo, Stefano, detto Terence (il bel tenebroso di Candy Candy, cartone anni ‘80) Riccarda, la più bella dell’istituto, Ivan, sempre attivo, pieno di amici, con un orientamento sessuale sempre celato, poi Marcolino e Gabriele, che guardavano da lontano Chiara e la sua amica del cuore, Grazia. Ma anche Paloma, che ha animato l’estate di Chiara a Cork.

“Ma tu come fai giorno dopo giorno a rimanere fedele alla tua scelta, a lasciare un po’ di spazio allo sperpero senza però permettergli di svuotare tutto di significato? Dove la metti la rabbia che avevi, dover le metti le voglie, come lo nascondi il terrore di invecchiare e la preghiera se deve succedere, che succeda subito, senza obbligarti a prendere delle decisioni?”

Tutte e tutti hanno attraversato diverse fasi della vita, sliding doors che ti aprono uno scenario, piuttosto che un altro e un interrogativo si fa strada sempre più potente: chi siamo dopo i sogni fatti da ragazze e ragazzi, dopo le scelte intraprese, i progetti, le illusioni e appunto i miti?

Restiamo noi stessi con quello che ci è successo: con gli eventi che non avevamo programmato, con le persone che ancora dovevamo incontrare, i corpi che abbiamo sfiorato, gli abbandoni che abbiamo subito, i tradimenti che abbiamo inferto e che ci hanno inferto.

“Avevamo tanti sogni, ma da un certo punto in poi la vita diventa solo una, la nostra. Tu. Come te la sei sistemata? Dove la metti la nostalgia per quel tutto che è stato e dove la metti la nostalgia per quello che invece non è stato, ma avrebbe potuto essere, solo che ormai si è fatto tardi?”

Perché la storia di ciascuno di noi “è una storia luminosa, faticosa e complessa” e “per fortuna ci sono le storie degli altri, mentre ci arrabattiamo con i nostri problemi e le nostre soluzioni, ci sono sette miliardi di persone che stringono fra le mani una trottola, un portachiavi o una penna e nel frattempo la mente spazia tra le necessità quotidiane, gli affetti, le gioie, le passioni”.

Dopo Le luci nella case degli altri, uno dei suoi primi romanzi, Gamberale ci consegna di nuovo lo sguardo sugli altri come ricetta contro il vuoto e l’antidoto contro ogni pantano esistenziale, ricordandoci che occorre tenere insieme quello che ci fa splendere e quello che ci consuma.

Antonella De Biasi