Credo fosse a fine 2022. Alessandra Minervini parla di Goliarda Sapienza. Il libro era L’arte della gioia; e mi aveva sempre causato una certa ripulsa, come certi titoli, come certi nomi – non sapevo niente di Goliarda Sapienza, e mi sembrava, boh, uno pseudonimo poco felice.

Mi ha colpito, questo fatto, perché ravvisavo una sorta di simmetria con ciò che mi era successo anni prima: passai diverse volte di fronte a un libro, impilato nella vecchia versione della Feltrinelli di piazza Ravegnana a Bologna, ed ero disturbato dal titolo e dalla copertina; poi aprii quel titolo (per i curiosi: Dance dance dance di Murakami) e tutto cambiò.

Alessandra mi ha detto: Leggilo, davvero; più un’altra frase che conservo per me. E questo Leggilo, davvero, e questa frase, hanno fatto sì che mi chiudessi in camera mentre gli altri lavoravano; e leggessi.

A questo punto, lasciatemi spiegare a cosa serve la letteratura per me.

Io credo, e l’ho già spiegato alcune volte, che leggere sia parlare e scrivere ascoltare; e se non sei capace di startene zitto, proprio startene zitto, non tacere, startene zitto, sarai un autore o un’autrice mediocre. Perché, tacendo, il libro diventa a questo punto un atto linguistico di cui sei un mediatore tecnico, quasi un supporto miracolato: inspirazione e espirazione, modulazione, sguardo. Allo stesso modo, come dice Tarantino, il lettore è autore: colma gli spazi vuoti – ne hanno scritto bene Nicola Gardini in Lacuna: saggio sul non detto (Einaudi 2014) e Javier Cercas ne Il punto cieco (Guanda 2016), per cui le motivazioni della bruciatura intorno al collo del tenente Aldo Raine in Bastardi senza gloria, o il contenuto della valigetta di Marcellus Wallace in Pulp fiction – per non dire della benda all’occhio dell’uomo nelle pubblicità delle camicie Hathaway – creeranno diverse narrazioni, ognuna per ogni illazione sulla storia.

Quindi. Per me la letteratura è lezione morale, intrattenimento, gioia tecnica; per me leggere è accettare di essere creato, accettare di venire nuovamente al mondo. Solo che di libri nella mia vita che hanno accolto questa sfida, e mi hanno creato, ne ho trovati sì, ma poi non così tanti; e a volte hai voglia che questo immaginario picchi più forte che può, e non accetti di meno.

Di questo avevo bisogno, nel mio lockdown personale: di qualcuno che picchiasse.

Si può dire che Hrabal, per dire, abbia creato in me l’accettazione di ciò che sono con Una solitudine troppo rumorosa. Sono diventato io, l’uomo che pressa i libri. E che la Cerna abbia creato in me la premura: sono io che dico e io che accolgo, dopo la lettura di In culo oggi no. Si può dire che Tondelli mi abbia creato con Un weekend postmoderno l’accettazione del mondo intorno a me, e la voglia di perquisirlo; e che Benacquista lo abbia fatto con Saga.

E Goliarda Sapienza? Ora dirò la cosa grossa, quindi, se volete, scandalizzatevi da subito; Goliarda Sapienza ha creato in me la donna. Come quel film francese, Et Dieu crea la femme: Goliarda Sapienza ha distrutto un simulacro di donna che in me continuava a esistere, nonostante tutto – l’idea idiota della donna in quanto traghettatrice, svelatrice, maestra e quindi intrinsecamente mai pari; e ne ha ricreato un altro. Un libro quello deve fare: ricordarti le cose come sono, svelarti le cose come sono, sacralizzare le cose che sono; creare nessi che non ci sono, mostrare nessi che non vedi. Ognuno dei libri sopra indicati questo ha fatto, e questo ha fatto L’arte della gioia: leggendolo scoprivo stupito la ferocia di vita nel femminile, che nessun ruolo letterario né nessuna autrice mi avevano spiegato così bene, così a fondo. È un po’ come se non avessi mai sentito la musica soul, e ti mettessero alle orecchie Marvin Gaye, Aretha Franklin o, avete capito: il libro ti deve creare e ricreare, e in qualche modo ti deve ricostituire dall’equilibrio precario che avevi prima, creando un nuovo equilibrio precario.

Ho detto una frase impegnativa, me ne rendo conto, dicendo che ha creato in me la donna. Non vuol dire che non conoscessi la scrittura del femminile, o che non avessi mai letto scrittrici; ma la storia di Modesta per me crea la protagonista, proietta nel femminile che in me dormiva, squaderna le possibilità della vita. La povertà assoluta e la ricchezza inconcepibile, il pudore e il furore, il riserbo e la curiosità, la gioia e la vendetta: sembra che Goliarda Sapienza abbia voluto portare dentro tutto, e non mi stupisce scoprire che il libro sia stato rifiutato. Come a dire: non c’è pericolo più grande che la vita com’è.

Mi è stato insegnato dai miei cattivi maestri che un maestro può essere cattivo, ma un insegnamento resta comunque valido. Mi sento perciò di poter portare come cattivo maestro questo insegnamento: la lettura di L’arte della gioia come modo per concepire le possibilità del reale, facendoci infilzare da una violenza del sensibile come modo per scoprirsi tangibili.

Faccio un esempio con due frasi. La prima è proprio all’inizio. Voglio dirvi quello che è stato senza alterare niente. Trovo questa frase sublime, e me la sono segnata, perché una scrittrice, uno scrittore, dice bugie ma non mente mai; e questa frase non è reale, certo – Modesta non ha carne e ossa –, ma è la verità.

E l’altra è all’ingresso del capitolo 13. Dice: Andavo al pozzo, guardavo nel fondo, ma anche lì masse di nuvole sbattevano le loro ali scure alle pareti scivolose per finire risucchiate dall’acqua stagnante del fondo. La prosa costruisce la trama, lo stile costruisce lo sguardo. Per me un libro è trama e sguardo, ossia, insieme: senso.

Allo stato attuale, di libri che riescono a farlo in maniera così incauta e – mi ripeto – feroce me ne vengono in mente pochi. Silone, lo faceva, alcuni grandi russi, lo facevano, il mio Maandel’stam, lo faceva. Anche Goliarda Sapienza; che no, non è uno pseudonimo. È vero. Tutto è vero.

L’altra frase che mi disse Alessandra, fu Perdonati.

Ivano Porpora

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