“Siccome la consapevolezza è una visione della realtà libera da idee e giudizi, è chiaramente impossibile definire e mettere per iscritto che cosa essa rivela”
A W Watts, La saggezza del dubbio
Ho un astuccio tessuto a mano in cui una volta avrei sempre trovato la penna con cui scrivevo, la matita ben temperata con cui mi piaceva fare degli schizzi, niente di che, e una gomma di pane, con cui cancellavo appena, perché i disegni troppo puliti non mi sono mai piaciuti. L’astuccio ora è quasi sempre vuoto perché a turno uno dei miei figli avrà preso la matita, la gomma, vista la consistenza, sarà finita appallottolata tra avanzi di patafix e la penna chissà dove. Non lo cerco neanche più quell’astuccio e quando ho bisogno di una penna per sottolineare o prendere un appunto, afferro la prima cosa che capita, e spesso si tratta di penne con piume colorate in cima o animaletti dal musetto so cute, quasi sempre dalle tinte fluorescenti, o glitterate, nei casi meno sobri. Dipende da come la guardi, perché ogni cosa dipende sempre da come la guardi: sicuramente mi sono liberata dalla maniacalità con cui avrei finito per usare sempre le stesse cose. Mio malgrado ho dovuto scontrarmi con quella verità che le abitudini tendono a coprire: ovvero che abbracciamo sempre l’imprevisto, anche quando crediamo di non farlo.
Questo saggio I figli che non voglio in cui Simonetta Sciandivasci raccoglie una serie di articoli di giornale scritti da diverse penne per un’inchiesta dell’inserto culturale de La Stampa, è una grande operazione di franchezza. Diciamo finalmente quello che pensiamo davvero, anche le cose che non si dovrebbero mai raccontare. Come questa: non ho figli e mi va bene così, non li ho perché non ne voglio, con o senza rimpianti.
La franchezza sembra una grande virtù contemporanea: oramai diciamo tutti quello che pensiamo “davvero”, e le confessioni corrono sui social alla velocità di un reel, senza aver neanche aspettato di digerire. Diciamo tutta la verità su quanto siamo avvilite, lì sprofondate nel divano come avvolte da due grandi orecchie di elefante a guardare l’ultima serie, la stessa che tutti gli altri, sempre francamente, ci hanno consigliato di vedere, o forse a leggere l’ultimo libro, che tutti francamente ci hanno indicato come l’ultimo capolavoro anche se quel personaggio è così parossistico da sembrare di gomma. È una franchezza un po’ snob e avvelenata, però, un po’ cattiva anche, scortese (chissà perché la scortesia è un amo a cui abboccano tutti i pesci), perché siamo stanche di sentire tutti quei giudizi e battute di spirito che corrono anche loro sui social, stanche dell’ignoranza dilagante, del dilettantismo dei vari blog, delle cospirazioni, anche di quelle femministe. È una franchezza un po’ avvelenata e anche un po’ paternalista. Ma è davvero franchezza questa?
Una delle prime a raccontare la maternità con la franchezza di una confessione di cui avevamo tanto bisogno è stata la scrittrice inglese Rachel Cusk. Succedeva nel 2001 quando usciva A life’s work: on Becoming a Mother. Chi non ha avuto modo di leggerlo e se ne è fatto un’idea attraverso le pagine del dibattito che ne è seguito, le interviste, le accuse, si è probabilmente fatto un’idea sbagliata. Ci si aspetta il racconto apocalittico dell’esilio della maternità, delle “atrocità” che una madre può compiere per la mancanza di sonno, per quello stato estenuante di vigilanza continua; “the propagation of the human race would virtually cease, which would be a shame”, pronosticava una giornalista inglese.
Ma cosa ci dice davvero Cusk in questo libro ibrido in cui la maternità si intreccia alle pagine di Edith Wharton, di Lawrence, di Flaubert, perché la letteratura resta per la scrittrice il filtro privilegiato per analizzare e cercare di capire la sua esperienza? Questo memoir è la forma che per Cusk ha preso quell’amalgama di sentimenti negativi che ha partorito assieme alla figlia, tra i quali anche una specie di rimpianto per quella chimera che era la sua vita di prima. Rileggere la pagine di A work’s life mentre mia figlia, a casa per l’ennesimo raffreddore, mi interrompe continuamente con il suo entusiasmo, mamma guarda, mamma ascolta questa cosa è troppo divertente, devi assolutamente guardare, magari per mimetismo mi rimette nella condizione giusta di quel corpo madrefiglia (di cui parla Cusk), che non si sa dove comincia l’uno e finisca l’altro, che condensa spazio e tempo, per provare a capire meglio cosa conservare di questa lettura, cosa mi sta dicendo davvero l’autrice inglese. Per mimetismo perché in una vecchia intervista Cusk ricordava come questo libro dovesse scriverlo on the road mentre aspettava la sua seconda figlia, mentre quella nasceva, e durante lo sfiancante accudimento del primo anno di vita, I had to live it and to analyse it, both at the same time, mentre il marito di allora da cui poi ha divorziato (lo racconterà in Aftermath) si occupava delle bambine (ne avevano già una), mentre vivevano in una casa in affitto, in una grande proprietà sulle colline autunnali del Somerset. Lei voleva scrivere tutto con le emozioni di quel sé, quel “myself”, a fuoco vivo, prima che quelle emozioni magari scomode, scorrette ma sicuramente più spontanee venissero autocensurate dalla “buona madre” che la società con il corredo di immagini, ideologia e scelte politiche ed economiche di ogni tempo ci impone.
Cusk fa tanta ironia sui manuali di gravidanza e simili, sui gruppi di allattamento, sul fanatismo prima del biberon e del metodo Farber (per capirci quello di lasciar piangere i neonati nelle loro culle per insegnargli a dormire da soli) per chi era nato negli anni settanta e poi dell’allattamento a domanda e del co-bedding per quelli che nati negli anni settanta sono diventati genitori nel nuovo millennio. Ma sono altre le gocce lasciate in questo libro, quelle che scavano in profondità.
Non la sensazione di fracasso perché Cusk non riesce a continuare ad allattare la neonata; la donna debole, indecisa e meravigliosamente umana che deve portare avanti quel bambino come se fosse sempre consapevole e sicura delle sue scelte; quel desiderio che qualcuno ti guardi, ti soccorra, ti aiuti, provi compassione (sentimento ancora più acuto in certe culture come quella anglosassone); di isolamento e claustrofobia; di giorni che perdono la loro struttura o quella a cui ci eravamo abituate; di piccoli piaceri che non lo sono più; di rinunce; il tira e molla quasi la schizofrenia dei sentimenti, incluse rabbia e noia; quel figlio che a volte è come un peso sulle spalle, una specie di zaino troppo grande e ingombrante, una carapace da cui vorremmo liberarci ma senza la quale ci sentiamo esposti; quel truce sguardo disumano del mondo cosiddetto civilizzato; la brutalità di ogni separazione; voler uscire il prima possibile dal tunnel dei primi anni e trovarsi a sentire già la nostalgia di quello che non tornerà, a non avere memoria del parto. No, quelle gocce sono altrove, almeno per me.
Dopo aver attraversato le prime ottanta pagine, tra coliche, pianti, inadeguatezza ed autoironia, arriva la benefica consapevolezza che tutto quello che Cusk ha fatto per calmare quei pianti, tutta la parte migliore di sé stessa che aveva cercato di tirare fuori per calmare sua figlia era stata inutile tanto quanto la disperazione. Perché con i figli l’unica cosa necessaria è stare lì, che queta sola cosa è tutto, che essere lì e non altrove vuol dire essere disposta, in caso di bisogno, a lasciare tutto il resto. Poi un’altra riflessione semplice ed essenziale quanto la prima: la maternità non ti risveglia all’amore, ma ti apre la finestra sul baratro del non amore, ti fa sentire intensamente piuttosto i limiti dell’amore. L’amore si nutre all’ombra della negligenza. E poi: la sensazione, mentre legge alla figlia le storie che leggiamo ai nostri figli prima delle buona notte, che quelle storie contenevano già tutto quello che abbiamo imparato dopo, tutto quello che siamo diventati dopo, assieme alla sensazione di essere “la prima madre”, perché in questo mondo che si muove solo in avanti, si è perso il passato, la madre che ci insegnava ad essere madre (di qui la ridicola necessità del manuale).
La paternità-maternità ha a che vedere con il momento presente, che può essere caotico e minacciato da tutti quei sentimenti negativi che conosciamo, ma è il luogo dove l’amore (che resta il sentimento che ha guidato la nostra scelta e che ci lega ai nostri figli) trova espressione, si lascia contemplare, arriva a noi, e noi abbiamo il talento (anche solo linguistico, anche solo per pochi sporadici e fottutissimi momenti) di esprimerlo e raccontarlo. Di dargli voce. Di sentire che ad un certo punto tutto si allinea e tu senti di potercela fare, di poter proteggere ed amare. di riuscire a trasformare il male in bene, l’oscurità in luce. Di incarnare quel paesaggio materno dove tutto prende radice.
Ma la franchezza di Cusk in realtà l’aveva già usata Adrienne Rich in quel suo meraviglioso saggio Of woman born, che è sicuramente un modello per Cusk. Non solo per la franchezza ma anche dal punto di vista formale e stilistico: Rich sa che per scrivere un libro così, sulla maternità, dovrà intrecciarlo all’autobiografia, a quell’io personale e arbitrario. Rich denunciava ed attaccava l’istituto della maternità; la sua capacità di alienare la donna come una bomba inesplosa sulla riva di una dolce insenatura; quel suo potere di inerzia e sclerotizzazione (uno dei peggiori ostacoli al pensiero) che lascia tutto congelato così com’era; un limite, forse il più insidioso al potenziale della donna. Già ci diceva quanto la maternità come istituzione, pur mettendo al centro il corpo della donna, sottraesse al corpo.
In Italia, un anno prima di Rich, era il 1975, Oriana Fallaci scriveva Lettera a un bambino mai nato (mancano ancora tre anni alla legge sull’aborto). La franchezza con cui scrivono Rich e Fallaci, è ancora un’altra franchezza, tanto diversa che quella di oggi sembra un’ombra, un succedaneo, sbiadisce al confronto. È la franchezza di quella generazione lì, che nonostante tutto quello che proprio non andava, nella famiglie e fuori, possedeva un certo coraggio anche se radicato nell’incoscienza e nell’ottusità della ripetizione di stereotipi, ma comunque coraggio, e una certo senso della responsabilità, del sacrificio, senza troppi grilli per la testa. Quei genitori che per capirci a ventiquattro anni già avevano messo su famiglia e quando rientravano dal lavoro non andavano in palestra, non litigavano a chi toccasse uscire con gli amici o con le amiche quella notte, non si lamentavano della giornata infinita di lavoro, ma stavano lì ad aiutarti con gli esercizi di matematica che proprio non riuscivi a capire, a rimboccarti le coperte, lì con la loro vita magari monotona magari no. Oppure, tornando alla Fallaci, con la franchezza di chi ha fatto della “disobbedienza” il proprio credo; di chi già sapeva che la maternità non è un dovere, né un mestiere (Cusk la considera forse erroneamente un compito) ma un diritto.
Si confessa Fallaci: la vita è una tale fatica, bambino mio. Ancora di più perché è una madre single, una donna che ha scelto di vivere sola, al tempo le chiamavano “signorine”. Sa che portare avanti quella gravidanza vorrà dire sacrificare il lavoro e perdere la libertà, eppure portare un figlio in grembo non è una limitazione; e a quel bambino che è solo una goccia di vita, una larva, un pesciolino comincia a parlare perché appunto la maternità non è un compito, né una vocazione, non è solo un diritto, ma è un lungo racconto con le sue bugie e i suoi fraintendimenti e tentativi di verità; qualcosa che devi portare fino in fondo, sia qual sia il fondo. Anche la lettera di Fallaci è un’altalena di emozioni rispetto alle quali quelle registrate da Cusk sembrano quasi stupidi capricci: perché dentro ci sono tre fiabe che hai scritto comunque, ci sono delle scarpette bianche, la paura la rabbia di sentirsi ridotta ad un puro contenitore, un vegetale, una macchina fisiologica e poi il disgusto di sé per aver provato quella rabbia, quelle crisi di furore imbecille, ti ho comprato una culletta, buonanotte bambino mio, una lacrima che ruzzola giù. La franchezza di dirgli che fuori dell’uovo non v’è libertà, non v’è uguaglianza, che l’unica legge è sempre quella del più forte. Che il mondo cambia senza cambiare davvero. La franchezza che senti montare quando non ti guardano in faccia, quando ti considerano una irresponsabile, quando sembra che tutti e tutto sia una congiura per farti cambiare idea: noi o loro. La franchezza di dire che io e te bambino siamo due estranei legati allo stesso destino “mai due sconosciuti uniti nello stesso corpo furono più sconosciuti, più lontani di noi”. La franchezza che è coerenza, fino alla fine, accettando le responsabilità, e la fermezza quando è giunto il momento di separarci (perché quel bambino non ce la farà a nascere), “a costo di soffrire, a costo di morire”.
Il libro della Sciandivasci non è solo per quella piccola spiaggetta di donne che hanno scelto di non avere figli per ragioni che non si esauriscono solo nella vanità o nella sindrome di Peter Pan. Questo libro saltella come tra le pozzanghere per schivare il rischio sempre pronto (come nel caso di Cusk) di essere additato come un attacco alla famiglia, un po’ schivandolo, un po’ fregandosene, ma soprattutto sapendo che l’unico modo per cambiare le sovrastrutture esistenti l’unico modo per continuare ad immettere le energie femminili nella cultura dominante è ragionare senza tabù sugli stereotipi, smascherarli, e fare della maternità non un limite (né una cosa terribile) ma un mezzo per esprimere e liberare esperienze ed energie.
Simonetta Sciandivasci sono i trentasette anni, un orologio che non suona più solenne le sue ore come nei romanzi di Woolf ma è un moderno cronometro che corre ancora più veloce, un lavoro a tempo indeterminato e di responsabilità nella redazione culturale della Stampa a cui il libro è dedicato (Rich dedicava il suo libro alle nonne; Fallaci “a chi non teme il dubbio”), ed una vita sentimentale a dosi, da tenere lontana quando diventa rischioso tenerla troppo vicino, e poi i treni che sono ufficio, scrivania, casa. Sullo sfondo c’è “l’inverno demografico”, e quel cinque per cento di donne che non fanno figli perché non vogliono, che poi è il contesto e il punto di partenza dell’inchiesta di Specchio e di questa collezione di scritti. Ma soprattutto la consapevolezza di sentire e confessare “il morso di una mancanza, la piccolezza della mia esistenza”. La capacità di insinuare il dubbio rispetto al proprio stile di vita “Mi domando se non fare figli non sia, anche per me un manifesto?”
In questa raccolta, la scelta della maternità e della non maternità resta nella sfera privata e abbraccia una pluralità di punti di vista e di esperienze: l’incoscienza e l’irrazionalità del trovarsi a fare un figlio, che ti permette di muoverti assieme al tempo (“e quanto è salutare questa cosa: è una specie di sorgente dei miracoli che ti liscia le rughe sulla faccia” (Loewenthal); un cambiamento di rotta che è da qualche parte scritto negli astri (Terranova); un domanda da riformulare: “Voglio partorire un genitore?” (Ranfagni); che le madri perfette non esistono, anche se a questo punto non ne dubitavamo e che essere madre ti complica la vita ma te la riempie di gioia (Caterina Soffici); che le ragioni che ci spingono ad avere un figlio sono sempre egoiste e che avere o non avere figli è un tassello del mosaico di quello che siamo (Marzano); perché la vita può essere completa ed appagante anche senza un figlio, o forse semplicemente perché ci ha fatto soffrire troppo guardare nostra madre smettere di essere qualsiasi cosa, e restare a casa ad aspettare tra le quattro mura (Cafagna); perché bisogna riscrivere tutto daccapo (Vagnoli); perché non c’è stato neanche un momento in cui abbiamo pensato di cambiare la vita che stavamo vivendo con quella che avremmo vissuto diventando madri (Gasperetti); o le difficoltà di essere una madre sigle (Surina); per Maria Sole Tognazzi si può essere madri, anche senza avere bambini che sono solo una delle possibili espressioni della maternità; e invece no dice Melissa Panarello, un libro non potrà mai essere un figlio, “un figlio mi ha spezzata, ed ho capito che spezzarsi è bellissimo”; Viola Ardone scrive che è una madre, ma avrebbe potuto non esserlo, perché finalmente le donne possono considerarsi “divine” anche senza la presenza del figlio; perché non avere avuto figli quando potevamo, può anche diventare il desiderio di adottare i figli che non abbiamo avuto anche se siamo single (Pivetti); perché i figli si fanno solo per egoismo, perché ci aspettiamo che ci restituiscano quello che gli abbiamo dato ( Mencarelli); perché la paternità ha a che vedere piuttosto con la forza, con i pesi, è una questione di pesi che anche quando sembrano leggeri come può essere un figlio di pochi anni ti stremano o di copri che pesano davvero come quello di un adulto che un bambino a volte riesce all’improvviso a sostenere, che si spostano da padre a figlio, assieme ad improvvise liberazioni e confessioni (Franzoso); perché, come ricorda Lipperini, i figli non si ostentano.
La nostra è una epoca in cui è sempre più difficile dimenticare noi stessi e lasciarci davvero trasportare dall’istante presente. Restiamo spesso intrappolati in insalubri circoli viziosi. Perché quel sé, quel chi ero prima irrompe nell’esperienza, in ogni nervatura delle nostre sensazioni. È capriccioso, famelico, e ama la facciata. La maternità invece è una cosa solida ed organica, di incontri e di rischi, di amore e disamore. Un storia dove l’armonia o disarmonia della musica importano meno delle percussioni. Che forse ha bisogno di un racconto che non è né la vecchia narrazione da smantellare (come aiuta a fare I figli che non voglio) né questa nuova narrativa culturale che aspira a diventare mainstream in cui anche la disperazione (quella di Fallaci è “troppa” o sarebbe addirittura passata di moda) e la consapevolezza di ogni scelta devono essere cancellate, basta con questi piagnistei.
Silvia Acierno
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