Vi accompagniamo in questa nostra incursione nel Novecento letterario italiano sfiorando testi molto noti ma che riletti oggi, a distanza di decenni, recano ancora valido il proprio messaggio proprio partendo dalle vicende dei loro protagonisti. Sono uomini che tra Nord e Sud Italia allungano il proprio sguardo sul mondo che oggi ci circonda.

Il sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino, 1947

Lungo quel sentiero che porta al dirupo dove i ragni farebbero il proprio nido, un non luogo in cui trovare riparo con una pistola da lui rubata ad un tempo criminale, Pin, figlio dei carruggi e della povertà, si accompagna al mondo dei grandi anche quando questi, infastiditi dal suo essere un costante pungolo, lo evitano. Che siano quelli dell’osteria del paese con i gomiti puntati e gli occhi duri che guardano rassegnati il viola dei bicchieri e smicciano chi entra e chi esce. O quei partigiani sbandati ma uniti non da ideali ma da: ognuno ha la sua patria, che pensano solo a sfogare il loro furore contro un’onda nera che ha strappato loro la vita e che ora vogliono riprendersi a tutti i costi.

Con le sue grida e canti acuminati, farciti da battute mordaci e taglienti, il giovane Pin smaltisce la nebbia di solitudine che alligna nel petto di cui sono responsabili una vita ai margini, esperienze premature ma soprattutto quei grandi che intanto osserva e studia per smascherarli perché, in fondo, non vuole diventare un domani come loro, con quello sguardo opaco e la bocca umida di ira. Come il giovane Calvino nell’entroterra ligure, vive a stretto contatto con i partigiani che non sono eroi ma semplici uomini che nella guerra ci si sono trovati loro malgrado e dai quali impara l’urgenza di diventare cattivi.

Tuttavia, anche se i misfatti sono gli stessi da ambo le parti dei fronti, ciò che li distingue è perché sono lì: perché da un lato c’è chi combatte per non per abitare più i soprusi e per sfrattarli e dall’altro chi vuole mantenerli perpetuando la lotta di uomo contro un altro uomo. Nella sua salita verso la vita Pin è con personaggi memorabili che però non credono al suo nido. Ma non si sforza a convincerli che possa esserci un altrove. A lui interessa trovare l’amico mai avuto che creda come lui all’impossibile, a quel posto segreto dove non provare più paura. Attraverso le vicende di Pin Calvino trasforma così i propri ricordi in parole e crea una storia ai margini della lotta partigiana che ne ricalca il sapore e il ritmo, con una scrittura dove la fiaba dice alla realtà: parla.

La casa in collina di Cesare Pavese, 1948

Corrado ricorda chi è stato quando, dopo l’armistizio e lo sbando, la sua vita oscilla, tra giorno e notte. Tra la città di Torino fremente, ricalcata sulla scia di un Dos Passos, dove è un docente di scienze, e la sua collina, un Sud alla Faulkner, dove si rifugia in sé stesso e vive la scienza di non buttarsi nell’acqua degli eventi per non sentirne il freddo. Non sta con le camice nere, esalta l’impegno degli altri che invece fanno gli scrutini alla Storia e più ossessivamente osserva la realtà più profondamente cala nel disagio della propria solitudine. Avverte la colpa del non impegno e si condanna prima che siano gli altri a farlo. Ma nelle pieghe dei ricordi c’è la richiesta di aiuto di chi è in disarmonia con il mondo e già in queste pagine Pavese lasciava intuire un disagio esistenziale che lo braccava da tempo.

L’autore si rilegge nel blocco di Corrado e si confessa ai propri lettori rintracciando le ragioni della sua inazione. Rievoca la propria terra imbrattata dall’ala impazzita di un uccello di fuoco e calpestata da torme di tedeschi e rappresaglie, e una lotta che non più tra soldati ma tra uomini. C’è chi sfolla e chi resta schiavo, oltre la Dora e tra le colline che hanno perso la purezza di un tempo, chi imbraccia le armi della reazione e chi come lui si nasconde dentro un cespuglio nel quale sta così bene da dimenticarsi di uscire, sdraiato su un letto dove per non farle si rende le cose impossibili.

Durante la lettura viene da chiedersi: ma Corrado, quando ti decidi? Nelle situazioni bisogna tuttavia trovarsi, troppo comodo sbuffare seduti nei nostri comodi salotti nel leggere cose oramai lontane e di un uomo che non cambia vita ma solo la tana. In quel 1943 come ci saremmo comportati? Avremmo alzato le spalle bevendo le voci della radio o ci saremmo dati alla macchia imparando a difenderci da soli contro un occupante interno e esterno o piuttosto ci saremmo sentiti sempre in lotta, anche dopo la liberazione, perché, in fondo, ogni caduto somiglia a chi resta e gliene chiede ragione?

Fontamara di Ignazio Silone, 1933

Silone riceve nel suo esilio elvetico tre corregionali che gli raccontano, in un fitto intercalarsi di voci e resoconti, urgenti nelle parole e rassegnati nei visi, Fontamara, paesino immaginario della Marsica, sotto il gioco del fascismo. L’autore, che quelle terre conosce e ama, ricalca la parlata dei suoi narratori, esaspera alcuni episodi come grido di denuncia, esula dal pittoresco e manda alle stampe questo romanzo perché il mondo sappia. I cafoni, anche loro esiliati dalla cosiddetta civiltà, trascinano una pesante catena di debiti per sfamarsi, di fatiche estenuanti per pagarli a cui si aggiungono imbrogli difficili da capire con cui il mondo di fuori irrompe nelle loro vite e li fagocita per uniformarli.

Mentre ogni sera mangiano la minestra seduti sulla soglia di casa, il potere rappresentato da Roma si insinua nelle loro terre perché non può permettersi che esista una realtà che vada per conto suo e che ragioni, benché elementarmente, con la propria testa. Così il mondo popolare subalterno di Fontamara, se accetta le avversità della natura, non comprende quella di uomini che abbruttiscono la loro terra togliendo luce e acqua e il diritto di pensare. Ma ad un certo punto la parola non viene più usata per lamentarsi nella stanca rassegnazione da oppresso ma per urlare al mondo che i cafoni esistono e hanno molto da dire.

Ed ecco il giovane Berardo che non ha nulla di eroico ma rompe la catena della costrizione: ragiona consapevolmente e pone la domanda fondativa: che fare? Il suo gesto, che non a caso avviene a Roma, consente alle parole di liberarsi, di dirci che quei cafoni non vivono chissà dove ma sono accanto a noi e che c’è sempre qualcuno pronto ad ingaggiarli quando fa comodo. Oggi gli sbeffeggiati e gli ingannati, che spesso si arrendono alle proprie paure, vengono sedotti da chi guarda alle loro reazioni di pancia, esacerbando una paura dentro la paura con l’inganno. E il regime di allora, ma in realtà anche tutti gli altri che abbiamo conosciuto o forse conosceremo, ha avuto buon fiuto. Ma quel figlio di briganti ci aveva visto lungo. In situazioni di estrema repressione che proliferano nel mondo che ci circonda viene da chiedersi: Berardo dove sei? Forse oggi avremmo bisogno del tuo sguardo acuto per portarci al cuore delle cose. O forse avremmo bisogno di dare sempre più voce ai tanti Berardo che, lontani e vicini a noi, combattono la loro personale battaglia, anche quando, riprendendo Orwell, qualcuno obbliga a pensare che 2+2=5.

Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi, 1945

Per Levi scrivere di quei contadini, conosciuti e amati durante il suo confino lucano, è la testimonianza, palpitante, etnografica, lambita da un realismo mitico alla Pasolini, di un altro mondo serrato nel dolore e negli usi, eternamente paziente. Per loro Cristo si è fermato a Eboli, al paese prima: quella povertà refrattaria non può dunque definirsi cristiana che, nella propria lingua, significa: essere uomini. Si considerano infatti bestie da soma e pagani per quegli Dei dello Stato che non hanno culto tra quelle argille dove regna il lupo ma non la lupa fascista, l’esclusione ma anche una irrinunciabile ospitalità.

Spetta dunque al forestiero arrivata da Torino raccontare, fuori dalla retorica di una comunità compatta, che esiste invece un’umanità altra, ignota ai più, che si staglia in quelle terre aride che sanno di ginestre. Un’umanità peraltro esiliata come lui perché tutti, compreso il podestà, vestono ruoli e vite ma vorrebbero essere altrimenti e altrove. Perché a loro sta stretta quell’Italia prona, come Gagliano, su banchi di maestri di scuola che non insegnano ma immolano a un totem ideologico, dispensatore di farmaci senza diagnosi e esportatore di inciviltà.

I contadini si rassegnano, ma non le proprie donne, quell’humus inconscio primordiale, che sono tra le voci più significative del romanzo. Curvano, è vero, la schiena sotto i mali della malaria e di un potere rapace che ha fatto il nido oltre le montagne, ma non si fanno spezzare perché la consanguineità, di parentele e comparaggi, li tiene tutti uniti in un vincolo sacro, molto di più di un’appartenenza ideologica. Forse anche oggi, visitando quelle terre, ritroveremo quel legame d’acciaio dove ci aiuta con piccoli gesti per un benessere generale, per quanto semplice. È altresì significativo che nelle case dei cafoni siano appese specularmente due stampe a ruoli invertiti: la madonna nera, spietata e oscura dea arcaica della terra il cui sguardo è un costante monito alla propria coscienza e il presidente Roosevelt con il suo fare vispo e codiale, dio benevolo dell’altro mondo, verso il quale migreranno molti contadini del centro-sud Italia. In quelle case, in quelle campagne lontane, non c’è traccia di re, Garibaldi o uomini del secolo forse perché queste persone hanno deciso di vivere consapevolmente in un tempo tutto loro.

Levi si sofferma anche sulla finezza dei contadini, in barba alla loro presunta elementarità, raccontandoci le improvvisate rappresentazioni teatrali nella piazza del paese in cui mettono in scena loro stessi e i loro gioghi con quella lingua che non dice ma allude, da tragedia senza teatro e, insomma, da ‘’chi ha orecchie per intendere intenda’’. La questione meridionale prorompe in tutta la sua urgenza già all’indomani del dopoguerra, mentre ancora oggi file di invisibili mostrano che esiste un altro tempo dentro il nostro che questo testo ha il merito di ricordarci e ci invita ad agire. Da oltre 70 anni.

I quattro romanzi sono attraversati dai venti della Storia. Sono soprattutto testi di uomini contro altri uomini. Ma mantengono ancora oggi intatto il loro sguardo implacabile sulla realtà quando si è costretti ad una scelta o anche alla possibilità di non farla. Come ci appaiono contemporanee le grida e, al tempo stesso, l’immaginazione di un mondo tutto suo, lontano da quello degli uomini, di Pin che è stato costretto a diventare grande anzitempo, i tentennamenti di Corrado che vede rapidamente trasfigurarsi la propria città invasa dal fuoco perché forse non ha il coraggio, e a differenza di Pin ne ha l’età e la maturità, di farsi uomo, la semplicità di certe persone, come gli abitanti di Fontamara, che oggi come ieri sono quegli zeri del mondo che chiedono solo di essere conteggiati nell’aritmetica della vita mentre, come anche i protagonisti del paese dove Cristo non è arrivato, sanno leggerti la carta di identità, pure essendo analfabeti. Il Novecento ci osserva e anche da molto tempo e ci parla agli occhi. Perché, come ricordava lo scrittore Christian Bobin, ‘’la vista è uno dei sensi più incostanti’’ e bisogna starle dietro, ricordarle con luci violente e colori assordanti che è ora di cominciare a funzionare.

Claudio Musso

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