Mi chiedo se dipenda dall’età. Probabilmente sì.

A un certo punto – la metto in questo modo – ho cominciato a guardare più spesso, e con più attenzione, a ciò che avevo alle mie spalle. Mi ponevo domande come: cosa ho trascurato? Cosa ho dimenticato? Di cosa non mi sono accorta? Cosa dovrei recuperare, su cosa dovrei tornare un’altra volta, semplicemente perché merita?

Questo non significa che io abbia smesso di guardare avanti – guardiamo sempre avanti, qualunque sia lo sguardo che ciascuno di noi riesce a gettare sul futuro. Ma insomma avete capito: arriva un momento nella vita in cui ci si trova più o meno a metà del guado, e il territorio dietro le nostre spalle è davvero vasto, ancora più vasto di quello che dovremo attraversare.

D’accordo, ma cosa c’entra questo con i libri?

Quand’ero più giovane, entravo in una libreria e ne uscivo con bracciate di romanzi e raccolte di racconti, autobiografie e memoir nuovi di zecca, con copertine smaglianti e fascette urlanti – l’ultimo capolavoro di, l’esordio fulminante di, milioni di copie vendute nel mondo e ora finalmente è arrivato in Italia, il libro tanto atteso che tutti leggeranno.

Le novità mi inebriavano, letteralmente, e ne compravo a tutto spiano. Avevo l’impressione di cavalcare l’onda, mi capite? La cresta dell’onda, col vento tra i capelli e il sole sulla faccia. Facevo parte del gruppo dei surfisti, spinti dalle correnti, e c’era questa cosa della velocità, del leggere – o consumare – in fretta per lasciare spazio al nuovo “nuovo”, al prossimo libro dalla fascetta urlante. Il resto sembrava polveroso, per quanto necessario, per quanto fondativo. I grandi classici, quei libri che si dava per scontato chiunque avesse letto, appartenevano al passato, e invece io guardavo sempre avanti, ed era quell’avanti a essere pieno di promesse, a traboccare di sorprese.

Non voglio dire che di allora, di quella ragazza inebriata, non sia rimasto niente. Ci sono autrici e autori (pochi) di cui aspetto ancora, con impazienza, la novità fiammante, il prossimo libro in libreria. Ripeto, sono davvero pochi. È come un compleanno a cui decidi di invitare un piccolo gruppetto di persone, solo gli amici veri, quelli con cui vale la pena trascorrere un giorno di festa.

Insomma, quello che faccio adesso è ritornare indietro.

Provo a spiegarlo con un’altra immagine: mentre i surfisti surfano, leggiadri e veloci, e filano sull’acqua, io sono sulla spiaggia; li guardo per un attimo: sono così felici. Ma poi mi volto, senza alcun rimpianto, lascio la spiaggia e torno sul sentiero, allontanandomi da quella leggiadria e dall’attesa della prossima onda. Mi inoltro tra gli arbusti, dov’è più ombreggiato, dove fa più fresco. È tutto più tranquillo, lì. E, ritornando indietro, colgo dettagli che mi erano sfuggiti, rivedo certe cose, mi fermo a contemplarle.

Fuor di metafora, che diavolo significa?

È che l’ebrezza della novità è stata sostituita dalla più quieta, più composta ebrezza della rilettura. I miei pellegrinaggi in libreria si sono diradati (immagino che non sia una gran cosa, dal punto di vista di librai ed editori, e che, facendo così, io stia remando contro i miei stessi interessi, dato che sono una scrittrice e che, speriamo, continuerò a pubblicare, e che quei libri saranno “novità”). Se posso trarre un senso da questa mia esperienza, da questo paradosso, l’unico senso è questo: i libri che ho già scritto stanno nel territorio del passato, e mi dispiacerebbe pensarli come già bell’e andati, come un cappotto vecchio da mettere da parte perché quest’anno ne andrà di moda un altro. Insomma, anche i cappotti vecchi rimangono cappotti, e quanta vita abbiamo vissuto in loro compagnia, quanti momenti, che folla di ricordi.

Però, che cosa guadagniamo a lasciare la spiaggia?

Quello che ho detto prima: lo sguardo su ciò che era sfuggito, passando inosservato. La possibilità di andare più a fondo. Perché, credetemi, andare più a fondo è ciò che mancheremmo se continuassimo a surfare.

Avete presente una cipolla? La situazione è questa. La maggior parte delle volte, quando leggiamo un libro, stiamo privando la cipolla solo del primo strato, quello superficiale. Ma ce ne sono altri, per arrivare al cuore.

Ora, dato che una delle mie cipolle (mi sto pentendo un po’ di avere scelto un bulbo così umile, ma so che Wislawa Szymborska direbbe che va bene) è Madame Bovary, vi porto questo esempio: c’è un dialogo minuscolo – soltanto due battute – nella prima parte del romanzo, quando Charles sta per andarsene dalla fattoria Rouault e si affaccia in cucina, là dove Emma sta guardando, la fronte contro il vetro, le piante di fagiolo piegate dal vento. Emma si volta, domanda a Charles: “Cercate qualcosa?”, e lui le risponde: “Il mio frustino, per favore”.

È una domanda innocua, no? A cui il buon Charles risponde appunto, giustamente, “il mio frustino”.

No, non è per niente innocua (lo è e insieme non lo è, intendo dire) ma lui non lo capisce.

Provate a ripetere tra voi, pensando a Emma e al suo destino, a tutta la sua vita: cercate qualcosa? Cercate qualcosa? Cercate qualcosa? Cercate qualcosa?

Provate a ripeterlo pensando a voi, alla vostra vita.

Bene: sapete quando me ne sono accorta? Forse alla terza rilettura. Madame Bovary presenta un’infinità di strati: non è possibile sbucciarlo in tutta fretta, in una volta sola (non lo si può sbucciare mai del tutto, a dire il vero: è un tipo di lavoro che tende all’infinito).

Non è l’unico libro a cui continuo a tornare. Sul mio sentiero ombroso, lontano dalla spiaggia, dai corpi dei surfisti – più tonici del mio, questo è sicuro – ce ne sono altri. Ne nomino tre, forzandomi a fermarmi. Una questione privata di Beppe Fenoglio (altro lavoro che tende all’infinito), tutti i racconti di Raymond Carver (e dunque molti libri, per fortuna), tutti i racconti di Alice Munro (di nuovo molto libri, di nuovo per fortuna).

Vi faccio un altro esempio: prendete un racconto come Di cosa parliamo quando parliamo d’amore. Togliete il primo strato, quello superficiale: ce ne saranno altri. Togliete tutti gli altri e ce ne saranno ancora – poi ci chiediamo perché mai lo si continui a leggere. Il sogno di mia madre di Alice Munro? Vale la stessa cosa.

Ho appena scritto che mi sarei fermata, ma proprio non ci riesco. Metto su quel sentiero i libri della Ernaux e di Carrère. Il grande Gatsby. Casa d’altri, di Silvio D’Arzo. A sangue freddo, di Truman Capote. Gli scomparsi di Daniel Mendelsohn. L’impostore e Anatomia di un istante di Javier Cercas. Olive Kitteridge, gioia e delizia. I racconti di Čechov, gioia e delizia. Anna Karenina. I sillabari di Goffredo Parise. Tutti i romanzi di Alice McDermott. Ultimo parallelo di Filippo Tuena. Le poesie della Szymborska (appunto).

E via così, potrei continuare.

L’avrete capito: è che è un sentiero molto lungo.

Da quando ho cominciato a procedere a ritroso (ma con lo sguardo in ogni caso attento a quello che il futuro porterà), credo di aver capito fino in fondo cosa significhi quest’avventura strana, e bella e misteriosa, che è leggere un libro, ma leggerlo davvero. Non è che lo ignorassi, andavo solo troppo in fretta, come se il buono stesse per arrivare con la prossima onda – il che ovviamente può succedere, dato che le due cose non si escludono: a un prima segue pur sempre un dopo e il dopo non avrebbe senso senza il prima. Così, in quest’estate torrida, l’estate dei miei cinquantun anni, non vi consiglio libri appena usciti (soltanto uno, sì, nel caso in cui scriveste, soprattutto: Un bagno nello stagno sotto la pioggia di George Saunders) ma libri usciti tempo fa, anche moltissimi anni fa. Il punto non è soltanto leggere. Il punto è rileggere, così come scrivere significa riscrivere. E quei cappotti appesi nell’armadio non sono mica vecchi: sono nuovi di zecca, ve l’assicuro, e vi stanno aspettando.

Cercate qualcosa?

Sì. Ogni lettore è sempre in cerca di qualcosa.

Quello che pensavamo di avere già trovato è solo un millimetro di stoffa, solo il dettaglio di un dettaglio: il resto del tessuto è tutto da scoprire, e va in profondità. Probabilmente è lì, su uno degli scaffali, nei nostri appartamenti, a prendere polvere.

Dal mio sentiero ombroso, mi chiedo se mi manchi surfare senza fiato. Qualche volta prendo la tavola e mi butto di nuovo, lo faccio con gioia – non sono così vecchia. Ma c’è una grande pace, dove mi trovo adesso, la grande meraviglia del ritorno. Sono coi miei amici, stiamo festeggiando e ci vogliamo bene. Non è che li conosca come conosco le mie tasche (non conosciamo mai niente e nessuno come le nostre tasche, neppure noi stessi, è un’espressione assurda), ma ci vogliamo bene. Ho confidato loro moltissimi segreti, e loro l’hanno fatto a loro volta. Ci siamo scelti, un giorno, e siamo ancora qui.

Parafrasando Carver, ecco di cosa stiamo parlando quando parliamo di libri. È un cuore a cui cerchiamo di arrivare. Per quanto mi riguarda, è il grande viaggio di una vita. Anche nei giorni neri, non lo vorrei cambiare. Non vedo un’altra strada che sia ugualmente bella. Lo so che non è vero, che ce n’è sempre un’altra, e magari migliore, ma a me piace così.    

Elena Varvello