«È una poesia diretta quella di Massimo Parolini, una poesia che affronta il lettore senza giri di parole, convinta della verità che narra, verità di sentimenti e situazioni. Una riflessione continua l’accompagna, senza però intaccare il racconto». Così Umberto Piersanti, nella sua prefazione a Soglie vietate (Arcipelago Itaca, 2022) definisce la poesia di Massimo Parolini.

In effetti, la ricerca dell’autenticità delle cose attraverso la poesia è ciò che più caratterizza le liriche di questa silloge e viene perseguito dal poeta attraverso una prospettiva particolare: quella della marginalità.

Il termine ʽsogliaʼ rinvia da un lato all’idea di ingresso, dall’altro a quella di limite. Sono soglie vietate, porte chiuse all’intelletto umano, la malattia, la sofferenza universale, la morte, in particolar modo quella prematura (commoventi, in tal senso, le liriche dedicate a Gabriele Galloni e a Asja, alunna del poeta precocemente scomparsa), i volti che possono accogliere o allontanare da sé, la memoria, la divinità. Entrambi i significati sono ben resi dalla poesia di Massimo Parolini, che affida alla parola poetica il compito di tentare un possibile transito: rappresentare la realtà, fisica e metafisica, come da una porta lievemente schiusa.

Si tratta di rovesciare lo sguardo sulla vita, guardarla come se fosse possibile tornare su questo mondo dopo la morte e sapere cosa la vita realmente sia, strappando le ombre che appannano gli occhi ai vivi: «solo sapendo di essere già morto/ potrò vivere finalmente/ nel peso delle cose/ nel battito impercettibile/ di una foglia presso l’alba» (p. 39).

Si tratta, insomma, di fare ritorno alla caverna con la luce nella testa, facendo rivivere, quasi divenuta ormai sacra, ogni piccola cosa del quotidiano: la casa, gli alberi del giardino, gli animali domestici, le strade della città in cui si vive (qui esplicitamente Trento), gli affetti ancora presenti e quelli passati, gli ospedali, la malattia. Il paragone tra il percorso conoscitivo del poeta e quello del filosofo platonico emerge anche dall’architettura dell’opera, divisa in quattro sezioni, disposte quasi in una gradazione cromatica ascendente: Oscillazioni, Sottrazioni, Mendicando la luce, Come immagine accolta.

È questo sguardo di rinnovata autenticità che consente a Parolini di esprimere un profondo senso di pietas nei riguardi di ogni essere vivente, una compassione erede della lezione leopardiana. Se la precarietà in cui è immersa la vita umana è essa stessa una soglia mentale difficile da accettare, si può pur sempre tentare di affrontare la realtà senza cedere al nichilismo, ma innalzando il capo con dignità e senso di solidarietà verso la fragilità che tutti ci accomuna.

In questa prospettiva, emerge dalla silloge una fede profonda nel valore salvifico della poesia, unico mezzo per sottrarre la vacuità del tutto al divenire, per mutare il tempus in vita. Anzi, l’unità tra vita e poesia è più volte e con forza rivendicata: senza inverarsi nella vita, la poesia è solo cartastraccia: «Cartastraccia la poesia/ belle parole, freschi fonemi,/ piega dell’anima fonda,/ fiori ninfea sul pelo dell’acqua…/ cartastraccia se poi non riesci,/ uscito dal foglio, ad amare il reale,/ girate le spalle all’antro scrittura,/ sporcarti la lingua col fango del mondo…» (p. 69).

La poesia può rendere le cose amate ed eterne ed è per questo che assume valore anche il dialogo costante con la tradizione poetica, in particolar modo italiana. Il poeta non teme di porsi in relazione, talvolta polemica, con Dante, Foscolo, Leopardi, Pascoli, D’Annunzio, Ungaretti, Sbarbaro e Montale (solo per citarne alcuni), più volte richiamati con citazioni dirette o fini allusioni, quasi come amici di una mai sopita conversazione. E mi pare che da un altro grande autore italiano, Umberto Saba, Parolini mutui la tendenza a servirsi di una lingua che unisce soluzioni auliche e talvolta sperimentali, degne figlie delle Avanguardie novecentesche, alla semplicità della lingua d’uso colloquiale: una lingua che sa, in ultima analisi, ritrovare “l’infinito nell’umiltà”.

Spine cadute

A Maria, dal papi
Preferisco mia figlia a te
Eugenio Montale, che ti volti andando
in un’aria di vetro
per vedere accamparsi
il nulla alle tue spalle
o la tua ombra stamparsi
su uno scalcinato muro…
la preferisco anche
al tuo amico Camillo
e alle sue stime sbarbare
che vedono solo
facce volpine stupide o beate
ambigue e pitturate
rincorrere farfalle lungo l’orlo di un abisso…
mia figlia è tra coloro
che si fermano
sulle ferite di chi sanguina
fra coloro che in ogni vita
vedono una stessa meta
– non nel buio – anche se ignota.
La vicenda di gioia e di dolore
la tocca, non si muove fra la gente
con gli aperti estranei occhi,
ha due mani che raccolgono
spine ai bordi dell’umano.
Non accetta che si dica
“non si può più fare niente…”
“sono lì per loro scelta…”
talora la sua speranza
resta delusa, certo: si è liberi
di stare ai bordi
si è liberi di avere una piaga aperta…
ma più che una piega di dolore
sul suo labbro, scoppia un gemito
a fatica trattenuto
un’acqua amara di risorgiva…
e, come una coda di scorpione,
riprende il suo cammino
fra la gente che non si volta
che non vede la propria ombra,
fra la gente che attraversa i trasparenti,
Tu, pronta a scommettere
che quelle vite
siano spine cadute
dal volto di Gesù

*

Non chiamare la resa

Svaniremo, forse, pulviscolo fra le stelle,
saremo alone o materia oscura,
nana rossa invisibile a un occhio nudo,
cellula impazzita (di gioia?) in un divino mandàla…
ma ora ( ) sboccia, prima di scendere a terra,
o di farti sollevare da un’aria che trasporta,
non sostare sulle pieghe stropicciate
dei nostri gesti minimi,
su fasci di nervi in attesa di una posa,
fatti movimento che sostiene
il cerchio del nostro peso…
animula che il mio giorno sfoglia:
non chiamare la resa che consola…
mi sei cara più della prima luce, se appari
– labbra d’ambra – e ti adagi
sul mio respiro insetto, tu che tessi
senza sosta
ogni ora la mia tela

*

Sguardi

Eppure non si scorda un volto
intravisto nel vuoto della folla
se il nostro sguardare non è sabbia
di clessidra, ma acqua terra fuoco…
dimentichiamo i nomi
dimentichiamo i giorni
dimentichiamo… eppure
non si scorda uno sguardo
se dalle pareti della sua vita
cola l’angoscia dell’anima, l’incanto
di una storia che ti chiama…

Maria Consiglia Alvino

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