Quello del 1923, fu l’ultimo inverno di Katherine Mansfield. Si è ritirata nella campagna di Fontainebleau, accolta dalla comunità russa di Gurdjieff, filosofo mistico di origini armene, ciarlatano o illuminato. Mansfield ha solo trentaquattro anni e la tubercolosi è al suo stadio finale. Per evitare che possa contagiare gli altri ospiti dell’istituto – è l’unica tisica, e la comunità per lo sviluppo armonico dell’uomo non è un sanatorio -, Gurdjieff le ha improvvisato una stanza sulla stalla. Sotto ci sono le mucche e il latte che cade ogni mattina nei secchi di latta con un tonfo lontano quanto è lontana la Nuova Zelanda. Sopra, la stanza di Mansfield è tappezzata di drappi e tappeti, e le pareti dipinte. Per Mansfield è l’ultimo atto, l’ultimo passo verso quella ricerca della verità, che in qualche modo l’ha sempre guidata: una verità semplice, fuori da ogni morale, che è pure essa una convenzione. Il nostro critico Emilio Cecchi la immagina un po’ ridicola con la pelliccetta e i tacchi traballanti, tra le mucche, in quell’ultimo inverno mentre scrive al marito, lo scrittore e critico John Middleton Murry perché le porti qualche indumento in più. Ma Katherine ha imparato o sta imparando a ridere di sé stessa. Quella stanza in cui è entrata togliendosi l’abito della scrittrice, solo come la signora Murry, quella stanza da cui una parte di lei vorrebbe fuggire perché è troppo fredda, deve insegnarle ancora qualcosa: a sopportare il freddo, le amenità, la lontananza, la malattia, il senso della sua tragica storia. Perché la vita debba essere vissuta fino in fondo. Più che passetti traballanti, un nuovo impeto, quello con cui corre su per le scale per mostrare al marito -che pregato l’ha appena raggiunta-, le danze e tutto quello che sta facendo e farà, un attimo prima dell’ultimo sbocco di sangue (Nessuna come lei di Sara De Simone, Neri Pozza).
Cecchi (introduzione al Quaderno d’appunti di Katherine Mansfield), nonostante l’ammirazione che nutre non riesce a nascondere un certa severità, una specie di velata moquerie per questa scrittrice geniale ma in qualche modo “dilettante”. Ed insinua come quel dilettantismo, assieme ad una supposta “ingenuità”, quella debolezza intellettuale, illuminata da certe brillanti intuizioni critiche, le vengano dalle origini neozelandesi, dal suo provenire da una cultura primitiva, perciò debole rispetto alla grande costruzione occidentale. L’origine invece è il punto di forza del lessico di Mansfield (quello che gli intellettuali dei vari circoli di allora sono pronti ad azzannare e ridicolizzare, perché sono loro i cannibali, ci dirà Mansfield); è il suo spazio di donna, in cui avviene la sua storia. È il luogo in cui il lettore e il critico dovrebbero restare invece di “ridimensionarlo” sempre, come la critica ha fatto per secoli.
Il lessico femminile (la nozione è di Sandra Petrignani, Lessico femminile, Laterza), ovvero quel modo di raccontarsi e raccontare che attraversa l’espressione artistica femminile, è sempre più denso, eppure si porta dietro un silenzio lunghissimo. Così come lo spazio delle donne si sta espandendo vertiginosamente ma attorno ad un vuoto (Lo spazio delle donne di Daniela Brogi, Einaudi). Un buco che forse non dobbiamo solo riempire, ma mai smettere di contemplare.
Il lessico femminile – che non è quel genere quasi extraletterario in cui la produzione artistica femminile è stata per anni confinata- passa per certi temi ricorrenti, che raccordano senza esaurire le opere delle artiste, passate e contemporanee, attraversando in qualche modo anche le loro vite. È un inventario aperto (cose trascurabili, figli, amore, divorzi, solitudine, la perdita, la necessità di legittimazione, la vulnerabilità, invidie, amicizia, disposizione all’intimità…) che muta con il mutare dei linguaggi, della scrittura e della sensibilità di chi legge e di chi scrive (I racconti delle donne di Annalena Benini, Einaudi). Ma oltre a certi temi e scelte stilistiche, sulla cui specificità femminile possiamo essere o meno d’accordo, mi piace utilizzare l’espressione “lessico femminile” per indicare il modo (diverso) in cui questi contenuti prendono forma, per le immagini (diverse) che stanno sotto alle parole. Ma soprattutto per come queste immagini salgono su e si imprimono nella scrittura (e nelle altre espressioni artistiche), modificandola e facendone spesso oltre a dei capolavori, qualcosa di unico, specificamente femminile.
La madre (e il materno) è sicuramente uno degli elementi di questa grammatica femminile. “Tutto è cominciato prima di me”, scrive Elisa Ruotolo nel suo ultimo romanzo, Quel luogo a me proibito. Tutto è già lì, sotto la prima carezza offerta con il peso di tutto il resto, nella prima storia che ci hanno raccontato e in cui sono racchiuse tutte le altre. La consapevolezza del materno e quindi dell’origine (affettiva e creativa), del luogo da cui proveniamo e verso il quale ritorniamo in un movimento che è comunque anche centrifugo, potrebbe essere, ed in qualche modo è il punto di partenza. È la superficie su cui si sfiorano Anna Banti e Artemisia Gentileschi, in un rapporto quasi materno, di filiazione creativa, in quel meraviglioso gioco di specchi tra presente e passato, “io” e “tu” che è Artemisia (Anna Banti, exlibris20). L’origine celeste e cupa (sua e nostra) su cui torna e ritorna Anna Maria Ortese (Anna Maria Ortese e il Mare non bagna Napoli, exlibris20). L’infanzia di Fabrizia Ramondino in Guerra di Spagna e d’infanzia (Fabrizia Ramondino: la scrittrice dei due mondi, exlibris20). Il casarmone del Testaccio con tutti i suoi segreti, orditi dalla madre, a cui ritorna Elsa Morante e da cui scrive il suo capolavoro, La Storia (Dalla stanza 127, incursioneexlibris20). È Bagheria, la villa materna che custodisce il ritratto di Marianna Ucría e da cui proviene la scrittura felice di Dacia Maraini (La scrittura felice di Dacia Maraini, exlibris20). La sostanza scura e franabile che permette ad Elena Ferrante di uscire dai margini. La disaffiliazione di Beauvoir che le permette di scrivere la storia della nostra emancipazione (Simone de Beauvoir, exlibris20). Il punto di fuga di Marguerite Duras (La voce di Duras, exlibris20). “Mia madre” che la cinepresa di Chantal Akerman fissa fino alla fine, fino all’ultimo respiro che sarà anche il suo (Chantal Akerman: io e mia madre). I nastri dell’albero genealogico di Frida Kahlo che la legano ai suoi genitori ma non sono capaci di tenere insieme le part (L’abito di Frida, su exlibris20). La forza che viene dalla terra con le sue pietre, i fossili e prima i fiori con cui Georgia O’Keeffe costruisce il suo universo (La casa, le sedie, i sassi e i fiori, exlibris20). Quel punto, conficcato giù, in fondo a tutto, dietro Susan Sontag e il suo personaggio pubblico (Susan+Sontag, exlibris20).
Non è la presenza di questo tema nell’espressione artistica femminile, ma il modo in cui la figura materna viene plasmata e deformata. Le parole che si scelgono per narrare quell’amore (dalla scrittura autobiografica alla fiction, dall’autore che si fa voce narrante fino alla terza persona) e le immagini evocate dalle parole: acqua, onde, fiumi, dighe (The Waves, To the Lighthouse, Mia madre è un fiume, Un barrage contre le Pacifique…), buchi, pozzi, fino ad una stanza anecoica (La straniera di Claudia Durastanti): una cassa immersa nel silenzio in cui puoi sentire solo le tue vibrazioni. La madre può essere una sostanza liquida, lichenica, mista, che ti avvolge come un’edera, proteggendoti o soffocandoti, o entrambe le cose, ma che ti lascia comunque sempre esposta. In quel groviglio, la parola (la tela o la cinepresa) permette a ciò che di quell’amore sopravvive, di salire in bocca o restare dentro. La parola può essere l’unico modo per stare vicino ad una madre con cui non si riesce più a stabilire un contatto fisico (o con cui quel contatto non si è mai creato), a vegliarla o accudirla. La scrittura (ma anche la pittura o il cinema) crea così un flusso contrario alla realtà, una specie di negativo della madre. Se il territorio della madre si svuota, si riduce sempre di più, perdendo pezzi di senso, la scrittura aggiunge parole a parole, suoni a suoni. In un moto contrario alla demenza e alla vecchiaia che mangia i ricordi, la scrittura può aggrapparsi ai ricordi e raccontare alla madre la sua storia e quel pezzo di storia che le accomuna, madre e figlia. Soprattutto permette di ricominciarla (e riscriverla) infinite volte. E nell’osservare ciò che il tempo ha fatto al corpo della madre (lo vediamo in Fabrizia Ramondino) sopravvive comunque, nonostante le incomprensioni, i conflitti, e i matricidi, un’infinita tenerezza, a volte infinitamente crudele e vendicativa. Per arrivare, alla fine del romanzo, sui contorni della tela, e di quelle sagome, dove i chiari e scuri si confondono, e la madre appare finalmente come una persona libera e sovradeterminata, proprio come sua figlia. Sono intelligente quanto e più di te, e, se avessi potuto, avrei fatto le tue stesse cose, sono le parole che la madre di Elena (protagonista di L’amica geniale) rivolge a sua figlia. Le parti si invertono ed è la madre a sorprendere sul volto della figlia quella parte di sé detestabile e soffocata. E finalmente la figlia (sempre Elena) può ricongiungersi a lei in un qualcosa che è il trascurabile “ordine delle cose”.
Le ragioni che portano alla distorsione, alla collera, alle parole dure, possono essere diverse: assenza, abbandono, strati di abbandono, violenza, deprivazione, menzogna, amori molesti, simbiosi eccessive. Possiamo ricercarle nelle biografie delle scrittrici, ed in parte non smetto di cercarle. Ma le madri sarebbero comunque “colpevoli”, perché portatrici del “femminile”, che è un messaggio meno netto, intrinsecamente pieno di contraddizioni, a volte così ambiguo da essere indecifrabile. Perché sono l’origine dei nostri tratti e di quella porzione del nostro corpo e di noi che non riusciremo mai a rifare. stessi.
La madre è un luogo costantemente violato per mezzo dell’arte. È come se le scrittrici non smettano di interrogarlo, di profanarlo con quella testardaggine che spesso hanno portato queste donne a distinguersi. Il romanzo, il film o la tela prende forma in quella striscia di confine tra l’autrice e sua madre. Scrivere in questa zona di contiguità (in cui i pezzi anche quelli testuali non si devono saldare) vuole dire entrare ed uscire continuamente dal passato, uscire da un mondo che è stato tuo fino a pochi attimi fa, ed entrare in un altro mondo quello che ti sei costruita in cui però tra i mobili che hai scelto tu ce ne sono tanti ereditati da lei, in traslochi improbabili. Vuol dire sentire costantemente l’eco buono o cattivo di tua madre.
Così queste scrittrici possono raccontare le loro madri, seppellirle, ignorarle, ricongiungersi, riconciliarsi o continuare a litigarci. Ma accade che in qualche modo la madre “entra” (in una nuova introiezione) nelle loro opere, nelle pagine e nelle sue pieghe, si appoggia schiena contro schiena sulla sintassi, sulle parole, in un tentativo poetico di riscrittura e di traduzione. Ed è qui, nella riscrittura, dove arte e vita si nutrono delle stesse energie, che la figlia può mostrare la madre che contiene in sé; e la madre la figlia che ha contenuto.
Parte di questo lessico è anche la capacità di dire “io non so”, cerco la verità ma non l’ho ancora trovata e di costruire il testo (o la pratica artistica) attorno a quello che non si sa, o che non si vuole sapere, almeno non del tutto (Deborah Levy intitola proprio così il suo romanzo Things I don’t Want to Know). Intorno a cose di cui è difficile parlare, avrebbe detto Natalia Ginzburg.
Quello che non vogliamo sapere è il linguaggio della nostra anatomia, la nostra identità che resta all’ombra di tutto ciò che sappiamo. Le scrittrici sanno portarci proprio lì dove si perde il controllo sul sé come in un sogno che non è un sogno, o una visione che non è una visione. Dove inizia la dispersione, che è il luogo privilegiato per incontrare la madre, l’altro, per riuscire ad immedesimarci finalmente con lei, nel luogo dove i sentimenti diventano contigui e i corpi si confondono. Dove ci sentiamo parte di un flusso, di una corrente. Dove la vita, come disse Natalia Ginzburg, in fondo, non è né così buona, né così cattiva.
Frida Kahlo aggiunge a questo lessico un’altra dimensione: la scrittura del corpo fino ad inventare “un altro corpo al corpo” (Le due Frida) e l’esibizione impudica di tutto quello che è stato nascosto, violentemente nascosto sotto l’antico e rassicurante ideale di bellezza e conformità (Specchio delle mie brame di Maura Gancitano, Einaudi). Kahlo ci mostrava già il risvolto della bellezza (e tutta la sofferenza che una cultura patriarcale e sessista basata sul corpo e sulla sua integrità ha portato irreversibilmente con sé). Ci mostrava già quello che “sembrava bellezza”, con un linguaggio pittorico assolutamente inedito.
È come se le scrittrici (lo aveva già fatto Mary Shelley con il suo Frankenstein) siano capaci di affondare nella bellezza (e quindi nel corpo), di trattarla, di abbrutirla (senza paura di rovinare lo stereotipo), di ritagliarla (fino a farla sanguinare) con un colpo che non sarà mai secco, la mano tremerà appena. Di rielaborarla e metterla a confronto con l’armonia, fino ad inglobare quel tempo in cui di quel corpo manchevole o armonioso o comunque armonioso, resterà solo la protesi, un rossetto consumato, un portapillole vuoto, una calza smagliata (schiuchi Miyaho). Di confrontarla con la verginità, con l’invecchiamento, con la maternità, con l’amore. Tutta la fisiologia femminile dalla a alla zeta. E assieme alla bellezza, la scrittura femminile è capace di far deflagrare anche il romanzo (la tela o la scena): le parole e le emozioni sono brandelli, si inceneriscono e le scrittrici arrivano a toccare quello spazio intimo, vero, in cui “la smarginatura” non è uno scollamento onirico ma piuttosto sinonimo di “forte aderenza” a ciò che accade e ci accade (Sembrava bellezza di Teresa Ciabatti, Mondadori).
Le artiste si muovono così su un perimetro che tracciano attorno ai sentimenti, ai luoghi, ai ricordi, alle appartenenze e agli echi. In quel perimetro magari stretto, magari corto, magari buio magari splendente, c’è anche il loro strato tutto personale. Lì si dispiega la forza dell’immaginazione che è solo la forza di percorrere questo perimetro interiore, soppesando le perdite, i pezzi mancanti, quelli che sono stati divorati, quelli persi in una storia d’amore che è sempre anche di perdita, non per ritrovarli ma per sopportarne soprattutto l’irreversibilità. Questo perimetro è fatto anche della scrittura e soprattutto del margine d’errore nella scrittura, che, come scrive Elisa Ruotolo, “è solo un rigo qualunque. Che non chiude e non conclude. Che non dà pace né fine”.
Molte delle scrittrici che ho raccontato su questa rivista sono partite da una condizione provvisoria e disagiata. Anna Maria Ortese comincia a scrivere su una scalinata che conduce sul ballatoio di un appartamento del sobborgo portuale di Napoli e prima di Napoli, in una casupola costruita a metà in Libia dove viveva con la famiglia. Fabrizia Ramondino vive un’infanzia felice su un’isola spagnola dove il padre è stato destinato come console. Ma lì stringe un rapporto indelebile con “la casa nella casa” dove vivono i domestici e la balia Dida, dove si parla un’altra lingua. E con quel mondo di mezzo stringe un patto di solidarietà che la porterà in giro per il mondo, lontano da quello che resta del palazzo familiare, fino al rifugio di Gaeta. Elsa Morante è figlia di una maestra di scuola e di un impiegato delle poste e prima di diventare la moglie di Moravia, si arrangia, passando di stanza in affitto a stanza in affitto, costretta anche a impegnare le sue poche cose (facevo la vita del fiume). Dacia Maraini è figlia di una nobildonna e di un uomo colto, lo scrittore ed etnologo Fosco Maraini, ma la sua storia comincia in una condizione di forte disagio, il campo di concentramento di Nagoya. Di Elena Ferrante possiamo immaginare la casa modesta di una madre che fa la sarta, forse ebrea, immigrata a Napoli. La storia di Marguerite Duras -e tutta la sua scrittura- proviene da una strada polverosa dell’Indocina, quella che passa accanto alla palafitta dove la madre, una maestra francese vive con una superbia quasi folle la sua condizione di emarginata dalla comunità bianca che nei vestiti di lino e mussolina passeggia sulla rue Catinat. Chantal Akerman è figlia di quegli ebrei sempre in fuga, che devono ancora e sempre nascondersi, perché quella storia (se solo fossimo meno distratti) ce la portiamo dentro, si è fatta materiale genetico. Frida Kahlo è una ragazzina qualunque, una delle figlie, destinate al matrimonio, di un fotografo di origine tedesca e di una donna come tante altre ed il suo spazio è ancora più ridotto per la disabilità: dipinge su un letto. Georgia O’Keeffe proviene da una stanza dell’America profonda, il Wisconsin dei contadini, ed è lì che si formano quelle prime parole che furono un progetto artistico: “I am going to live a different life from the rest of you girls”. Susan Sontag dal sogno infranto di una famiglia qualunque di cui restano alcuni fotogrammi di una pellicola muta.
A volte posseggono ancora meno di una stanza tutta per sé, come nel caso di Anna Maria Ortese, indigente e in cerca di una casa modesta dove lavorare tranquilla fino alla fine. Per tutte, la scrittura è l’ultima stanza, quella fatta di tutte le stanze e gli spazi vissuti e in qualche modo abbandonati. Lo spazio che costruiscono sulla pagina, sulla tela e sulla pellicola non è il luogo banale dell’azione. È tutto il resto: il tessuto narrativo fatto di parole, ma anche di emozioni e percezioni. Di libertà e di addomesticamento, di perdite e ricongiungimenti. Di commistione, dove le ossa di una nonna paterna simbolo di tutta la femminilità sopraffatta fino all’anonimato, sono anche quelle della narratrice, in un colombario comune (Elisa Ruotolo). Di tempo che scorre in modi molteplici, mescolandosi con la spazio in una catena di metamorfosi. O è immobile, ma si è perduto comunque, e si è morti comunque (Aracoeli, Elsa Morante). Lo spazio assume sembianze umane, come le sottane della balia Dida. O il faro della Woolf, che palpita, come un cuore, si illumina e si spegne, accoglie e ricaccia. Non è un labirinto (immagine che ho trovato sempre troppo figlia della mitologia patriarcale), o uno spazio ingegnoso (prova dell’abilità e dell’ingegno del suo narratore-costruttore) in cui l’uscita c’è ma è nascosta, perversamente e brillantemente nascosta dal suo inventore. Ma è il gesto di Arianna che tira fuori Teseo del labirinto.
Lo spazio materno che Chantal Akerman fa saltare in aria (Saute ma ville) per osservare il vuoto e fissandolo attivare la memoria; lo spazio cavo di O’Keeffe nella casa messicana dove si rifugia nella seconda metà della sua vita, che è un ulteriore gesto pittorico, un’estensione della tela. Lo spazio di parole di Simone de Beauvoir, che decide di percorrere senza limiti. Lo spazio di Elsa Morante che doveva essere radicalmente occupato, occupato a tutti i costi dal romanzo, anzi dalla Poesia. Lo spazio al grado zero, della decostruzione di tutti i miti e cliché di Susan Sontag. Lo spazio infinito come il mare di Anna Maria Ortese. Lo spazio di Dacia Maraini che fluisce come un fiume da cui non escono né acqua né pesci e le impurità restano nel fondo, mostrate con una specie di reticenza che non dovrebbe mai passare di moda. Lo spazio che si fa voce, quella fisica e irresistibile di Duras. Lo spazio oscuro da cui attinge Elena Ferrante. Lo spazio in cui Anna Banti, sovvertendo le regole della biofiction, richiama il passato, allacciando la sua esperienza a quella di Artemisia. Il racconto-casa di Ramondino (in Guerra di Spagna e d’infanzia e in Althenopis) in cui la memoria è la mano che scosta una tenda per entrare in una stanza, e poi spinge un uscio e un altro ancora, le mura di cinta, il giardino, l’interno della casa, la soffitta, lo stanzino delle punizioni, la camera da letto di mamita, i giocattoli, le muñecas, le tazzine di porcellana, la frutta candita, le ville che sono un tutt’uno con i vestiti con cui la bimba va a visitarle, il cortile dell’amata Dida, la balia, semplice e immensa Dida… Lo spazio a forma di O di Ortese (Nomi di Nadia Fusini): uno spazio tutto racchiuso, perfettamente racchiuso, dove non c’è un inizio né una fine, ma fine ed inizio coincidono. Cavità dove tutto è permeabile, dove siamo parte di un corpo celeste, che è di una bellezza sovraumana.
Come raccontare questo lessico femminile che si fa spazio, con quali parole?
Nel suo saggio Against interpretation Susan Sontag ribaltava tutto, con quel suo gesto spregiudicato: la defamiliarizzazione. Invece di far calare la bilancia dalla parte del contenuto, la riportava sulla forma. Del resto, Virginia Woolf aveva già scritto che “lo stile per lo scrittore, come il colore per il pittore, è un problema non di tecnica, bensì di visione”.
Sontag formula il paradosso di fare una critica non ermeneutica, che non interpreti, che non sia cerebrale. Quel giorno, l’amico amante, il pittore Paul Thek, a cui il saggio è dedicato, le disse: Susan stop, I am against intepretation! Ci dice che la critica dovrebbe sforzarsi di essere qualcosa che ha più a che vedere con l’eros, (“l’attrait” che ritorna nelle pagine di Barthes) i sensi e le emozioni. “Our task is not to find the maximum amount of content in a work of art …what is important now is to recover our senses. We must learn to see more, to hear more, to feel more”, scrive Sontag. Ritrovare e restare sulla forma vuol dire in qualche modo restare su quell’amalgama di emozioni, che affiorano dal romanzo e dall’animo del lettore, e provare a raccontarla con onestà.
Le opere delle artiste sono forse congeniali a questo sguardo critico che si sposta in una zona di mezzo, tra analisi e percezione, tra verticalità ed orizzontalità, tra vita e opera. In una zona di coinvolgimento delle emozioni. Nello spazio infinito della lettura, per raccontare la corrente che è arrivata allo scrittore, attraversando le parole, per riversarsi sul lettore. E restituire quelle connessioni tra vita e scrittura, la vita nella vita (avrebbe detto Mansfield) e la vita nell’opera, senza spiegarle o interpretarle ma soprattutto “raccontandole”, in un racconto che si somma al racconto, in un destino che si somma a destino (A Double destiny on Anna Banti’s Artemisia).
Silvia Acierno
E tu cosa ne pensi?